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2020: Odissea verso dove lo dobbiamo decidere noi

In queste settimane abbiamo tutti più tempo per pensare; non dico riflettere –parola che ha una sua pretenziosità – ma pensare, a casa, col naso all’insù, guardando un soffitto o una parete che è lì da qualche decennio ma che, in fondo, ci pare di non aver mai visto prima.

E stamattina, al risveglio, mentre qualche uccellino felice della vita cantava incurante del freddo improvvisamente ritornato, pensavo ai tanti decenni già vissuti, a che messaggio ci abbiano portato, a che cosa ci possa dire l’oggi.

Gli anni Ottanta, con la loro ubriacatura lussuriosa, le top model, l’edonismo reaganiano, Pertini al Bernabeu, il Papa polacco, il crollo del muro e la ricchezza manifesta – forse anche grazie alla lira, che consentiva pure agli operai di possederne qualche milione – sì decisamente, gli anni Ottanta sono i miei preferiti. Nei Novanta il baricentro del mondo finanziario si sposta, dagli Stati Uniti verso la Cina. E questa arriva, oltre che sulle nostre tavole, anche nei nostri abiti: le giacche di re Giorgio di quegli anni sono una versione chic dell’uniforme mandarina; Claudia e Cindy, troppo opulente, cedono lo scettro a Kate, più ossuta e spigolosa, insomma, più cinese; nella musica, Nirvana, Depeche Mode e Gun’s and Roses scalzano i gruppi più bellocci, ma più superficialotti, del decennio precedente.

La seconda parte dei Novanta però è confusamente effervescente e a tratti tristemente pacata, come le feste quando s’è fatta una certa ora e sai che stanno per finire: non ti diverti più e inizi a pensare a dove avevi lasciato il cappotto.

Tre, due, uno,un trenino cantando “BrigitteBardotBardot”, e inizia il Duemila. Altro che anno nuovo, millennio nuovo. Qui tocca essere ottimismi per forza, anche perché se vale il detto che “il buongiorno si vede dal mattino”, qui se va male siamo fottuti per mille anni; quindi speriamo che vada bene.

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Ora, bene bene il millennio non parte. È appena il settembre 2001 quando a New York, che è come dire Roma o Parigi, accade quel che accade. Il 2002 si apre con l’entrata in circolazione dell’euro (e all’operaio di cui sopra, gli pare subito di aver preso una mezza fregatura); nel 2006 almeno vinciamo i Mondiali, contro i francesi poi, che su, diciamolo inter nos, è come quando vinciamo contro i tedeschi, una bella soddisfazione; però dura poco, è un’allegria finta, come quella da superalcolico.

Arriva il 2008, la crisi più forte dal dopoguerra, e iniziamo ad aspettare il decennio successivo. Scavalliamo il 2012, anno su cui i Maya avevano – pare – lanciato qualche profezia; non sappiamo bene nemmeno noi dove ci troviamo, con che cosa abbiamo a che fare; inventiamo o prendiamo confidenza con parole nuove (globalizzazione, geolocalizzazione, genitore 1 e genitore 2, ma il 3 è un numero come un altro, che cosa ci ha fatto per fermarci a 2), siamo tutti disorientati, tutti.

Naturalmente, però, ci portiamo in giro con la faccia di chi ha il numero 10 sulla schiena, come dice Cesare; un po’ perché mostrarsi perdenti (umani, forse?!) non va di moda; un po’ perché cerchiamo, chi può, di non pensare troppo: uno, due, tre o più viaggi all’anno, i finesettimana fuori porta, ogni giorno invece fuori casa da mattina a sera, lavoro, palestra, estetista, convegno, colazione con le amiche, shopping, la spesa, il circolo, ah già i figli, è vero, ci sono anche quelli, chi li ha dovrà pure pensarci ogni tanto … e così siamo andati avanti, fino a qualche settimana fa.

Quando abbiamo fatto il trenino lo scorso Capodanno, c’era qualche voce di sottofondo sul 2020, l’anno con la doppia cifra che si ripete, che capita ogni non so quanto (per fortuna!), ma non la si ascoltava, giustamente, siamo scienziati, mica leggiamo i tarocchi per mestiere … Poi è arrivato lui: no, purtroppo non George Clooney alla porta che senza di lui “no party”; è arrivato il virus.

Che ci toglie i viaggi, la palestra, a qualcuno anche il lavoro, l’estetista, i convegni, le colazioni con le amiche, i figli no, quelli speriamo che non ce li tolga. Più spesso ha tolto padri, madri, nonni, zii, fratelli, migliaia di morti, un’ecatombe.

Per questo, personalmente, non mi basta che scopriamo il vaccino, che non si muoia più, che “torniamo alla vita di prima”, essendoci buttati alla spalle questa esperienza, come fosse una brutta parentesi.

Non mi basta, non ci può bastare, per quei morti, al cui sacrificio dobbiamo dare un senso. Tornare alla “vita di prima” non si può, perché non ci saranno più le persone che c’erano prima; e a meno che non siamo una comunità solo a chiacchiere – cosa assai probabile – non dobbiamo tornare a niente: dobbiamo continuare a vivere con nuova consapevolezza, con rinnovata gratitudine per l’esistenza (che, “prima”, diciamolo, sembrava ci mancasse sempre qualcosa), col fermo proposito di essere meno egoisti e meno cattivi (meno stronzi si può dire?!) di prima; praticamente battaglie impossibili, scoprire il vaccino sarà più facile.

Virus, non ci piaci, non solo perché ci uccidi come mosche, quando trovi in noi terreno fertile; non ci piaci perché ci sbatti in faccia che siamo piccoli, poveri e provvisori, mentre ci crediamo grandi, ricchi ed eterni. Chissà che, in mezzo al tanto male e dolore che stai provocando, tu non possa fare – a chi avrà in sorte di sopravviverti – anche un po’ di bene.

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