Stiamo attraversando, in questi giorni, il momento più incerto e confuso della quarantena. Non siamo ancora entrati nella cosiddetta Fase 2, ma tutti i media ne parlano da giorni in modo martellante. E mentre parlano, parlano, tutto ci appare sempre più caotico. Cosa sta succedendo? Proprio ora che i decessi, i contagi, le terapie intensive sono in lenta ma costante diminuzione, proprio ora che le cose dovrebbero andare meglio, entriamo in confusione?
Intendiamoci, il caos sul Coronavirus c’è sempre stato, non solo nella comunicazione ma nei fatti, e non solo in Italia ma in molti altri paesi, perché nessuno al mondo era preparato a una pandemia di tale gravità. E tuttavia, i media italiani hanno alcuni vizi che aggravano il disordine in cui già versa la politica nostrana, a tutti i livelli, dal centro alle periferie del paese. Cerco allora di offrire tre chiavi di lettura per orientarsi nell’attuale caos politico-mediatico, perché questo ci accompagnerà, temo, per un bel po’.
I conflitti fanno notizia
Oggi, come sempre, i mezzi di comunicazione vanno a caccia di ciò che fa notizia. E anche oggi, come sempre, le tragedie e i conflitti sono i candidati più forti per la notiziabilità. Ora, il nemico numero uno di questo momento storico, quello contro cui tutto il mondo concentra le sue forze, è ovviamente il Covid 19. Detto in altri termini, il virus sta al centro dell’attenzione per ragioni non solo oggettive (dobbiamo sconfiggerlo al più presto per evitare troppi decessi e tornare alla vita di prima), ma anche mediatiche. Tuttavia il virus occupa la scena da troppo tempo, ormai, e come tale rischia di perdere capacità di attrazione giorno dopo giorno: gli essere umani – triste, ma vero – si abituano a (quasi) tutto, anche a convivere con un pericoloso nemico sconosciuto, invisibile e onnipresente. Perciò, per mantenere desta l’attenzione, i media devono continuamente trovare altri conflitti, per condire quello centrale e rinnovarne l’appetibilità.
È così che vanno intesi i continui contrasti fra virologi, immunologi, epidemiologi. Ed è così che dobbiamo leggere – almeno in parte – anche la litigiosità della nostra classe politica. La politica italiana, infatti, pur essendo molto conflittuale anche in tempi ordinari, dovrebbe pur capire che litigare proprio ora non produce consenso. Eppure, non resiste alla tentazione di rubare la scena sferrando attacchi a destra e a manca, non solo per la normale dialettica fra maggioranza e opposizione, ma persino dentro la maggioranza (Pd contro Cinque Stelle, Italia Viva contro tutti) e dentro l’opposizione (Forza Italia contro Lega e Fratelli d’Italia).
Non sto dicendo – attenzione – che i politici non litighino davvero, né che gli scienziati non diano in realtà interpretazioni contrastanti dei comportamenti del virus e della pandemia. Dico che i media tendono a ingigantire e amplificare, per assicurarsi audience, lettori e clic, anche la più insignificante disputa fra politici, anche la più lieve difformità di vedute fra scienziati. Ogni scintilla, sotto una lente d’ingrandimento, divampa. E se le scintille sono minuscole ma numerose, ecco che scoppia l’incendio. Fuor di metafora, è così che si spiegano le incessanti e fastidiose polemiche a cui l’intero sistema mediatico, dalla televisione al web, ci costringe tutti i giorni: un po’ sono reali, ma spesso sono esasperate dai media.
Sembra purtroppo che i media non capiscano che, al contrario, ciò che in questo momento più vorremmo sentire, la notizia a cui daremmo la massima attenzione, sarebbe la capacità del governo di collaborare, di ridurre le differenze e spegnere i conflitti, per sconfiggere il virus e affrontare la gravissima crisi economica.
Le probabilità diventano certezze
Per le donne e gli uomini di scienza è cosa ovvia: la medicina non produce mai certezze, ma sempre e solo probabilità. Gli organismi umani sono troppo complessi, le variabili genetiche e ambientali troppo numerose, l’incidenza di fattori psicologici troppo sottile per permettere alla medicina di fare previsioni certe sulla durata, l’intensità e l’esito di malattie anche non gravi, anche ben conosciute, persino banali. Figuriamoci se la medicina può riuscire a dare certezze su un virus nuovo e sconosciuto.
La medicina può sempre e solo accompagnare le sue affermazioni con un “forse”, un “probabilmente”, un “se non intervengono altri fattori… possibilmente”. Non ci sono certezze, insomma, nemmeno sull’andamento di un banale raffreddore, che nella grande maggioranza dei casi dura pochi giorni, ma a volte può finire in bronchite e addirittura in polmonite. A maggior ragione questo è vero per la vastissima gamma di esiti legati all’infezione del Covid 19: dalla totale assenza di sintomi, a qualcosa che sembra un’influenza, fino al decesso. Un virus che è riuscito a stupire, e ancora stupisce, tutti i virologi e le virologhe del mondo.
Il problema è che probabilità, percentuali e statistiche non funzionano nella comunicazione di massa. Non si comincia un titolo con un “forse”, né tanto meno con un “probabilmente”. I media hanno bisogno di formule drastiche, di contrapposizioni forti e affermazioni certe. Soprattutto in un paese come il nostro, in cui l’alfabetizzazione scientifica e matematica è fra le più basse d’Europa, per cui numeri e percentuali mettono in difficoltà la maggior parte delle persone. E soprattutto per il giornalismo nostrano, che non si è mai distinto – a parte pochissime eccezioni – per doti di divulgazione scientifica.
Perciò, quando un epidemiologo dice “Probabilmente fra una settimana capiremo meglio l’andamento dei contagi”, la notizia diventa “Fra sette giorni, chiarezza sui contagi”. Quando una virologa dice “Stiamo per testare un vaccino sui primi volontari”, la notizia diventa “Pronto il vaccino, sperimentazione su cavie umane”. Perciò, quando passa la settimana e ne occorre un’altra, e forse un’altra ancora, perché gli scienziati possano capirci qualcosa, per l’epidemiologo era chiaro dall’inizio, e infatti l’aveva detto, ma per la massa è un dietrofront. E se il vaccino non è pronto come i media strillano – anche se la virologa non l’ha mai detto – al pubblico appare un controsenso.
I retroscena diventano gossip

Nella comunicazione politica il retroscena è tutto ciò che accade nei corridoi del potere, quello che i media carpiscono ai portaborse, alle collaboratrici e ai collaboratori della politica, che ufficiosamente anticipano, interpretano e integrano le dichiarazioni ufficiali. Prima, durante e dopo ogni comunicazione ufficiale, è tutto un fermento di voci, allusioni, insinuazioni.
Il giornalismo di retroscena c’è da sempre. Ed esiste in tutto il mondo, non solo in Italia. Uno degli obiettivi dei media, come ho detto, è raccontare i conflitti. Obiettivo del giornalismo politico, dunque, è raccontare la lotta per il potere, un racconto che diventa molto più avvincente se viene condito con ciò che non si vede e non si sente, con quello che non è detto ufficialmente né mai lo sarà.
Ora, il giornalismo di retroscena più serio nasce da una ricostruzione minuziosa di informazioni che vengono da fonti confidenziali, con le quali i media stringono un patto di riservatezza: anonimato in cambio di affidabilità. Ai media sta poi l’onere (e l’onore) di essere credibili: la politica smentirà sempre ciò che non ha mai dichiarato apertamente, perciò il pubblico dovrà scegliere a chi credere, se al retroscena o alle smentite ufficiali. Se la ricostruzione mediatica è ben fatta, coerente e plausibile, ottiene la fiducia del pubblico.
Nei casi migliori, questo tipo di giornalismo è di altissima qualità: smaschera intrighi, provoca scandali, anticipa inchieste giudiziarie. Nei casi di collusione, è pilotato dalla stessa politica, che ad esempio lo usa per dare più rilievo a contenuti che, se dichiarati apertamente, non otterrebbero la stessa attenzione, o lo usa per scambiare messaggi in codice con altri gruppi di potere. Nei casi peggiori, il retroscena diventa vezzo, maniera o, peggio ancora, gusto per il pettegolezzo, che sembra un po’ meno plebeo se si chiama gossip.
Ebbene, il Coronavirus sta facendo emergere dai media italiani il peggiore giornalismo di retroscena cui abbiamo mai assistito. Prima di ogni uscita pubblica del Presidente Conte, ad esempio, viviamo giorni di continue congetture e supposizioni, provenienti da non si sa quale fonte, che solo in parte sono poi confermate dalla dichiarazione ufficiale e dal decreto relativo. Ore e ore di polemiche, prima ancora che il Presidente parli, su ciò che da tal giorno si potrà o non potrà fare, in casa, per strada, in regione, fuori regione, nel commercio, nell’industria, nella vita privata.
Gossip e chiacchiericcio della peggiore risma, a cui poi si aggiungono effettivi cambiamenti di rotta, parziali o totali, a volte dovuti a mutamenti oggettivi della situazione, a volte decisi per rispondere alle parti sociali o evitare ulteriori polemiche, a volte determinati dal semplice fatto che le anticipazioni erano sbagliate. Ma non basta: anche le voci fra le varie componenti del governo sono a volte dissonanti, per ragioni analoghe: difficoltà oggettive, fraintendimenti fra loro e con i media, retroscena sbagliati.
Tirando le somme, in questo momento il vero, il parzialmente vero e il falso convivono sfacciatamente, si fondono e confondono ancor più che in tempi normali, e per giunta vengono sempre confezionati nel linguaggio esagerato e banalizzante di cui dicevo, massimamente inadeguato a riportare le parole della scienza. Chiaro che il caos raggiunga il massimo, un caos di cui in parte sono responsabili la classe politica e i suoi numerosissimi consulenti, in parte sono responsabili i media, in dosaggi variabili e non sempre chiari, in parte siamo responsabili noi stessi, quando riportiamo sui social media, e altrove, notizie che non abbiamo mai capito né verificato.
Questo caos è già pesante in condizioni di normalità, ma purtroppo ci siamo abituati. Ora però non è più tollerabile, perché non si parla più di scaramucce fra parti, partiti e partitini, ma sono in gioco le nostre vite, il nostro lavoro, la nostra salute fisica e psicologica, quella delle persone anziane, che rischiano più di tutti, il futuro nostro, dei nostri bambini e delle nostre bambine. Se tutta la classe politica e tutte le testate giornalistiche non capiranno, se tutti noi, quando contribuiamo al chiacchiericcio con superficialità, non capiremo che cambiare registro e modalità è un’urgenza etica, non solo comunicativa, il caos continuerà e peggiorerà.
L’intervento della Professoressa Cosenza è puntuale e largamente condivisibile.
Desidero aggiungere una nota che deriva dal mio interesse per le Cure Palliative e le Cure del fine vita, aree in cui la operatività e i paradigmi costitutivi sono messi in discussione dalla violenza clinica e dalle dimensioni dell’attacco virale in corso.
La mia osservazione riguarda la possibile distorsione che i mezzi di comunicazione riservano alla morte.
Come forse avrete notato, all’inizio della epidemia in Italia i primi decessi da coronavirus si accompagnavano ad una rappresentazione della morte drammatica perchè segnava un imprevisto sottaciuto che incominciava a segnalare la gravità della situazione. Quindi un impatto sulla società carico di apprensione e di dolore per la tragedia di malati e famiglie. Poi gradatamente la morte ha fatto sempre meno notizia e oggi, a fronte della dimensione dello stato d’animo collettivo dell’inizio, disorientato e carico di pathos, la comunicazione di 200-300 perdite umane al giorno non fa più quella impressione.
Questo può essere un aspetto non negativo perchè, se ben pilotato, potrebbe portare ad una maggiore consapevolezza della esistenza della morte che si è insinuata prepotentemente nel sociale, quindi potrebbe essere forse meglio metabolizzata e non esorcizzata come è caratteristica del pensiero occidentale.
Ma non mi sembra stia avvenendo questo, anzi, analizzando il corollario che accompagna il trend comunicativo, intravedo un paio di aspetti negativi.
Il primo è la informazione secondo la quale la morte da cororonavirus interesserebbe sostanzialmente gli anziani, o disabili, o persone con almeno una malattia. Come dire che se qualcuno muore per effetto del virus, pazienza, era una persona fragile.
L’altra negatività è la collocazione degli annunci delle morti quotidiane che sono ridotti ad una elencazione numerica, spersonalizzata dalla vicenda umana e mescolata alla comunicazione di altri numeri come quello dei nuovi contagi – peraltro assolutamente inattendibile – e quello dei guariti – sempre più alto.
Una macabra competizione che può suonare come ” ma sì, … ci sono ancora 300 morti al giorno” e subito dopo “però i guariti sono molto di più”. Un dato positivo certo ma che oscura il significato del dato negativissimo precedente.
Queste osservazioni non solo esprimono una occasione persa dai media per orientare il pensiero sociale verso una dimensione della morte più riflessiva e corretta, ma portano anche al danno di una sottostima del rischio contagio da parte di una larga fascia di popolazione che si può sentire a minor rischio, quindi legittimata ad un mancato rispetto di norme, che, pur nella confusione come ben sottolineato dalla Professoressa Cosenza, sono le poche definite e di buonsenso.
Speriamo che questo periodo disordinato lasci spazio ad una fase di maggiore riflessione sull’essere e non si passi subito ad un post-umanesimo stroncando sul nascere una difficile fase di neo-umanesimo di cui personalmente sento che ci sia molto bisogno.
Caro Collega,
la ringrazio per la riflessione, che in effetti è centrale in questo periodo, e non solo.
Negli ultimi cinquant’anni, la cultura occidentale, sempre più focalizzata sui valori del consumo, dell’immagine (conta come appari e non come sei) e di una produttività astratta e non collegata al benessere psicofisico delle persone, ha trasformato il pensiero della morte e le emozioni che vi sono connesse in un vero e proprio tabù. La famiglia nucleare, lontana dai nonni e dai parenti più anziani, ha progressivamente sottratto i bambini e i ragazzi all’esperienza diretta e graduale dell’invecchiamento e della morte. Gli adulti stessi se ne sottraggono il più possibile, cancellandone in segni dal volto e dal corpo a colpi di trucco, chirurgia estetica e palestra (se vissuta per obiettivi estetici, non di salute). Difficile che i bambini siano portati ai funerali, ad esempio.
La morte è insomma cancellata, non se ne parla o lo si fa frettolosamente (“non facciamo discosri tristi”). È vero che all’inizio di questo periodo le immagini della malattia e della morte per infezione da Covid 19 sembravano andare in una direzione diversa. E altrettanto vero, però, che nel giro di qualche settimana le morti sono tornate lontane e astratte, trasformate in “numero di decessi”. La cancellazione, il tabù sembrano aver vinto, insomma.
Anch’io spero che questo periodo di rivolgimento collettivo (e di milioni di rivolgimenti individuali) possa portarci verso sensibilità più umane e umanistiche. Non ci aiuta, certo, la retorica dei numeri (tanti decessi, tante guarigioni, tanti accessi a terapie intensive), che al momento serve solo a incutere quel tanto di paura che possa indurci a stare a casa. Vedremo cosa succederà con la riapertura graduale.
Giovanna, sono molto d’accordo con il tuo ragionamento. Vorrei offrire un punto di vista che ho costrutito grazie a informazioni continue da amici che ho sparsi per l’Europa. Mentre Svezia, Islanda ed altri paesi lavoravano sulla fiducia e la responsabilità che avvicina, aggrega e consente di affrontare meglio le crisi….Qui ci hanno ingannati, ridicolizzati, carcerati e bombardati di falsità per mesi, primi complici i Media: la peggior specie che ha speculato sulle sofferenze ed ha lasciato nel dimenticatoio l’inchiesta seria e approfondita, attorno altre vie e metodi possibili per affrontare il virus come società e non solo a livello sanitario. Essere considerati irresponsabili dalle istituzioni è la peggior azione che potessero fare nella penisola. Ora assisteremo a milioni di denunce su tutto e contro tutti, class action e contro quelli che hanno approfittato della pandemia. Sono riusciti a peggiorare le condizioni di un paese già in difficoltà e con l’economia a zero, ora vedremo gli altri danni non solo economici, sociali, lavoro, psicologici e ancora non sono arrivati quelli degli studenti, dell’abbandono scolastico, della disparità di strumenti e dei danni vari dei costretti a casa, inermi. Bella impresa!
La vera domanda è: ci sono altre soluzioni al problema che non sia sacrificare le libertà individuali, collettive, economiche e non fare terrorismo da strapazzo? Quello che abbiamo visto e sentito ce lo ha fatto credere la retorica di massa. In realtà bastava stare distanziati, tenere una mascherina e non sputarsi addosso metaforicamente, perchè uscire o non uscire di casa non cambia e non cambiava nulla è come ti comporti che cambia radicalmente tutto e questo vale sopratutto per chi deve dare il buon esempio. Anzi, un’altra via, quella della responsabilità avrebbe potuto, fare la differenza a favore della salute, economia ecc. La retorica tutta della penisola che uscire equivale a contagio non sta in piedi nemmeno con la più alta arringa dei noti virologi televisivi. Purtroppo c’è altro e cioè la nostra totale ignoranza e arroganza rispetto agli altri mondi ed alle altre ipotesi di uscita da una emergenza pandemica. Come se la nostra fosse l’unica possibile. Quale scienza e coscienza abbiamo?
La cosa incredibile è che sembra che chi non si allinea – alla linea perdente su tutti i fronti – sia colui che vuole più morti. Invece, è proprio il contrario perchè i morti (come bene spiegato negli interventi sopra) ci sono stati anche con questo metodo aggressivo e perdente. Qui ci sono tanti ladri di verità. In Italia succederà una catastrofe legale, civile ed economica la quale verrà placata perchè pioveranno miliardi su miliardi a confortare imprenditori e salvare il salvabile. Permettimi, infine, una nota locale. Noi a San Marino che abbiamo copiato, come fanno i peggiori a scuola, senza capire, non essendo nè l’italia e nè potenza, non avremo alcun “paracadute finanziario” dalla UE, cosìcchè rischiamo la miseria. San Marino non lo merita affatto, perchè anche in un passato non tanto lontano ha saputo uscire dalle grandi crisi con idee messe in pratica brillantemente, come ci ha insegnato Pietro Franciosi a cavallo fra l’800 e il ‘900.