Articolo del blog

Ai tempi di Narsete scoppiò una pestilenza

“Ai tempi di Narsete scoppiò una pestilenza gravissima che colpì soprattutto la provincia di Liguria… Dappertutto era lutto, dappertutto lacrime. Poiché si era sparsa la voce che fuggendo si poteva scampare al flagello, le case venivano abbandonate dagli abitanti e solo i cani vi restavano a fare la guardia. Le greggi rimanevano da sole nei pascoli, senza più pastore. Le tenute e i castelli prima pieni di folle di uomini il giorno dopo, fuggiti tutti, apparivano immersi in un silenzio totale. Fuggivano i figli, lasciando insepolti i cadaveri dei genitori; i genitori, dimenticati l’amore e la pietà, abbandonavano i figli in preda alla febbre. E se qualcuno per caso era spinto dall’antico senso di carità a voler seppellire il suo prossimo, restava egli stesso insepolto… il mondo era riportato all’antico silenzio: nessuna voce nelle campagne, nessun fischio di pastori, nessun agguato degli animali da preda sulle greggi… Passato il tempo della mietitura, i campi aspettavano intatti chi li mietesse, perdute le foglie, le vigne rimanevano all’avvicinarsi dell’inverno con i grappoli splendenti ancora sui tralci…Non c’era traccia di uomini per le strade…”

Ho letto in più occasioni ai miei studenti di storia medievale questo passo della “Storia dei Longobardi” di Paolo Diacono. Lo leggevo per intero, senza enfasi e rimanevano colpiti vedevano la scena come se fossero al cinema, ne erano impressionati e mi seguivano più volentieri, dopo, nel racconto degli eventi del VI secolo, prima dell’arrivo in Italia dei Longobardi,  i nostri antenati rimasti nella penisola 200 anni e passa, come non dirci un po’ Longobardi!

Sembrava tutto così lontano.

Bologna vuota al tempo della pestilenza

L’ho letta tante volte questa pagina ma mai e poi mai avrei creduto di trovarmi a vivere una situazione assimilabile: negozi chiusi; rare automobili; pochi passanti; bambini che nascono senza che  il loro babbo li veda affacciarsi alla vita; uomini che muoiono senza essere accompagnati da parenti o conoscenti; anziani marginalizzati in istituzioni di ricovero chiamati a sostituire la visita attesissima di un figlio o nipote con una schermata skype gestita da un inserviente, quando può, se può; nei giornali pagine e pagine di necrologi che sono “la” notizia. Mi fermo qui potrei continuare a lungo sugli effetti sociali, personali, morali della peste o del virus. Senza dir nulla di quelli sanitari. Quelli fanno la differenza, verrebbe da dire: oggi nessuno si sognerebbe in tempo di virulento contagio di radunare folle per una processione devota ma a dire il vero in Iran a Qom non è andata così. Molte cose sono cambiate nella ricerca e conoscenza delle cause eppure abbiamo ancora nelle orecchie l’eco degli oppositori feroci alle vaccinazioni. Per fortuna sappiamo difenderci meglio proprio grazie alla ricerca, alla scienza, al dubbio, al metodo critico che ci aiuteranno a uscire dal tunnel.

Intanto intorno è silenzio, deserto, dolore…all’improvviso da una finestra, mentre scrivo, si alza forte la voce di Edith Piaf “Quand il me prend dans ses bras/ Il me parle tout bas/ Je vois la vie en rose”.  Ma adesso non ci si può abbracciare, lo rifaremo, la vita riprenderà colore e speriamo che la memoria non scolori. La memoria aiuta anche a resistere, a sapere che non siamo i primi, a capire che molto torna e ritorna e che quanto appare nuovo spesso sembra tale solo perché abbiamo dimenticato gli antecedenti.

Chissà se i miei ex studenti si sono ricordati in questi giorni di grande “stranianza” delle parole di Paolo Diacono. Io ricordo la loro emozione e vorrei raccontare loro le terribili pestilenze trecentesche e quelle del XVII secolo e di come se ne è usciti: soprattutto grazie alla cultura. Voglio ricordarlo a me e a loro mentre continuo a studiare, mentre vorrei che studiassero in attesa del tempo degli abbracci.

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