È parte dei luoghi comuni sulle conseguenze della tecnologia digitale che il tempo trascorso davanti allo schermo (di uno smartphone o di un computer) sia tempo sottratto alla socialità; che il dilagare di social, con chat, messaggi, profili, immagini post, video, ecc. ci renda meno pronti cognitivamente, passivi esecutori di azioni pre-disegnate; che l’uso dei social media incrementi le tendenze già forti nelle società contemporanee a un individualismo esasperato. D’altra parte, è ormai acquisito nella ricerca sociale sulle nuove tecnologie che i social media siano di fatto un altro spazio dove le persone vivono, che si affianchino agli altri spazi della loro vita “reale”, l’ufficio, la casa, il bar, la piazza del villaggio. Una modalità della socialità che si aggiunge. Chi ha ragione? I social e le tecnologie digitali producono pericolose trasformazioni “antropologiche” della nostra umanità, del tipo alienazione, passività cognitiva, automatismo? Oppure sono una nuova modalità che si aggiunge a quelle già note di generare relazioni sociali?
Possiamo facilmente riflettere su che cosa accade quando le dimensioni “più reali” (o almeno presunte tali) della socialità vengono meno. Come ci si poteva aspettare, si amplia l’altra dimensione. Quando si chiude uno spazio, ci si lancia a occupare gli altri disponibili. La vita online straborda, i post, le videochiamate, impazzano, si cercano nuove piattaforme, nuovi supporti più performanti, si avviano iniziative di ogni genere, concerti, dibattiti, lezioni, visite guidate, persino safari e sedute di yoga, aperitivi e pranzi festivi, riunioni politiche e aziendali, con il sottofondo di bambini che giocano; voci, consigli, inviti si ripetono. All’insegna del valore di una ritrovata “intimità familiare”: il tempo per leggere, per fare qualcosa insieme ai figli, per “cucinare”, per “pensare”, “il profumo del caffè”, “la buonanotte alla mia famiglia”, “il tempo con la mamma”, “tutto è un insegnamento”, “troviamo conforto in noi stessi”, “in questi pochi metri quadrati trovo pace”. All’insegna di una nuova “coesione sociale”, in cui emerge la spinta a riscoprire e rinvigorire forme di solidarietà e di altruismo, degni di una “comunità” in cui il valore d’uso di un bene si prende la rivincita sul valore di scambio imperante: “la pasticceria che regala brioche e biscotti al personale di un ospedale”, “i sarti che cuciono e distribuiscono mascherine”, “l’agriturismo che porta i pasti gratis”, e molti altri casi si potrebbero aggiungere. All’insegna delle “istruzioni per l’uso”: “indicazioni per l’ecologia domestica”, “come farsi lo shampoo in casa”, “come lavarsi i denti a tempo di danza”, “cani e bovini come scudi al virus”, “la Pasqua al tempo del distanziamento sociale”, “la riscoperta di ritmi naturali”, “sentirsi vicini in tempi di virus”, “la scuola al tempo del virus”, e così via. La quotidianità si ripensa, fa buon viso a cattiva sorte, si adatta a condizioni nuove. La socialità online – che dilaga – attiva forme di mediazione proprie. Quali? Con quali effetti?
Partiamo da un principio piuttosto importante: non esiste una natura umana essenziale, che rischierebbe di venir intaccata dalla tecnologia. Gli uomini sono ciò che li fa l’insieme di pressioni (culturali, sociali, storiche, ambientali) che li avvolge. Anche i modi in cui le persone si legano le une alle altre per costruire reti di relazioni sociali e costituire una società sono variabili, a seconda di tali pressioni, tra queste la tecnologia. Disporre di un’automobile e di strade percorribili dove poterla usare consente alle persone di costruire e alimentare reti di relazioni sociali diverse – più estese magari – da quelle che si possono costruire in assenza di quelle condizioni e di quello strumento. Possiamo quindi affermare, in base al principio precedente, che una socialità “pura”, “autentica”, o non mediata non esiste. Una conversazione faccia a faccia è mediata da convenzioni tanto quanto una conversazione online. Cambia però il tipo di mediazione. Qualsiasi cosa una nuova tecnologia ci consenta di fare è parte della nostra umanità, ovvero è qualcosa che, in quanto esseri umani, abbiamo sempre avuto la potenzialità di fare.
I social e le tecnologie digitali oggi ci consentono di agire e di essere secondo modalità nuove, d’accordo, ma non “disumane”, semplicemente parte di ciò che gli esseri umani sono, proprio come guidare un’automobile o parlare a telefono. Quindi, proprio come posso decidere se andare in un posto a piedi, in autobus, in bicicletta, in auto, posso decidere se contattare qualcuno andando a chiamarlo sotto casa, telefonando, mandando un messaggio, una mail, una lettera; oppure posso decidere se ho voglia di trascorrere il pomeriggio uscendo con un’amica, stando davanti al mio pc con un video gioco, postando immagini e commenti, oppure chattando. Si aggiungono, grazie alla tecnologia, modalità della socialità, se ne perdono alcune, se ne modificano altre. Tutto pienamente “umano”. Questo vuol dire evidentemente che la socialità cambia. Una popolazione di lavoratori migranti è facile che perda la propria tradizionale forma di socialità, e finisca con il creare reti sociali più adatte a una nuova esistenza migrante (in questo i social hanno un ruolo importante). Un paio di generazioni fa i bambini giocavano in strada e nei cortili, oggi questo modello di socialità è scomparso. Studiare la socialità umana (mediata dalla comunicazione), significa osservare i modi dello scambio e la reciprocità, primari aspetti costitutivi di una relazione sociale. Le persone crescono sin dall’infanzia per essere socializzate in direzione di ciò che per il loro gruppo sarà considerato il comportamento appropriato o inappropriato. Quando un bambino fa qualcosa, un genitore può dire “non si fa così”. Il motivo per cui le persone crescono e diventano “tipici” contadini del Senegal o operai cinesi non è genetico. Le norme di comportamento non sono fisse; e possono cambiare. Nello spazio, se pensiamo che modelli di socialità in Italia, in Brasile, in India, in Gran Bretagna o in Svezia non sono uguali; nel tempo, se pensiamo che cinquanta o cento anni fa i modelli di socialità erano differenti. Però, le cose, i processi, non sono mai neutri.

Qui veniamo al secondo grande pilastro della nostra umanità, la comunicazione, che non è altro che una modalità molto sofisticata dell’interconnessione costante delle persone nel mondo. Ognuno di noi è un’individualità organica. Ma ognuno si sforza di oltrepassare i limiti della propria pelle per interconnettersi con qualcun altro. La comunicazione quindi è una forma di azione nel mondo, radicata nel corpo, che ha precisi effetti sul comportamento degli altri; è un processo interattivo e dinamico, costruito dalle azioni e dalle esperienze organizzate, intenzionali, reciprocamente influenti e riconoscibili, che vengono create in svariati modi da partecipanti attivi nel loro mutuo interconnettersi. La comunicazione umana è data simultaneamente dalla sonorità della voce, dallo sguardo, dalla postura e dai movimenti del corpo, dalla capacità evocativa dell’olfatto, dalla decorazione dei corpi e dall’utilizzo di oggetti, secondo un mix creativo di risorse continuamente messe in campo per attivare molteplici reti di relazioni. Comunichiamo con il tono di voce, con la scelta del trucco, di un tatuaggio, cucinando alcuni cibi, partecipando a un rito o lasciando un appunto sul tavolo della cucina, così come lasciando in eredità degli oggetti o dei beni o visitando un museo dove sono custodite tracce di memorie del passato. La comunicazione non è solo regno del simbolico, ma è radicata nella biologia dell’animale uomo, nella corporeità: c’è continuità tra le risorse comunicative umane e quelle del resto del mondo animale. Come gli altri animali, gli uomini producono suoni attraverso le corde vocali, usano la vista per ottenere informazioni sull’ambiente, riconoscono persone e situazioni dagli odori, fanno un uso intenzionale del contatto fisico. Al tempo stesso questa comune base corporea si apre a una straordinaria creatività – la varietà delle culture – che si concretizza in una miriade di pratiche comunicative faccia a faccia e a distanza. La caratteristica fondamentale della comunicazione umana secondo questo approccio è la multimodalità, cioè la capacità di mettere in campo simultaneamente una serie straordinaria di risorse comunicative per mantenere in vita relazioni significative.
La comunicazione, inoltre, è sempre incorniciata. Il concetto di “framing” è utile per pensare la questione del distanziamento sociale. La cornice aiuta a individuare e anche a collocare il confine, definisce le regole e le aspettative che guidano il nostro comportamento. Innumerevoli cornici spesso invisibili (ma molto concrete) inquadrano la nostra vita sociale, e la conoscenza che ne abbiamo ci aiuta a comportarci appropriatamente, secondo le aspettative. Stare dentro il “frame” di un cinema, ti dice che non dovresti rispondere a telefono o parlare con il vicino, ma osservare e ascoltare in silenzio. Quindi, possiamo iniziare a considerare l’offline e l’online come due “frame” della nostra quotidianità che attivano atteggiamenti e comportamenti differenti. Questo è anche il motivo per cui, in alcuni casi, le persone sentono che l’ambiente online induce aspetti diversi di certe relazioni. Possiamo opporli, oppure possiamo considerare questi contesti come complementari, parti di una rappresentazione completa della persona e delle sue relazioni. Per quanto mi riguarda, con alcune persone preferisco di gran lunga comunicare tramite un messaggio di posta elettronica o un sms o anche via WhatsApp che non per telefono e, men che meno, faccia a faccia: persone, per esempio, che mi procurano fastidio o una reazione negativa anche quando comunichiamo in modo impersonale, e che mi farebbero letteralmente perdere le staffe se l’interazione avvenisse in presenza. Per telefono ci sarebbero la voce, il ritmo del parlato, il tono, e la comunicazione sarebbe certo più ricca di elementi personali. Ancora di più faccia a faccia: si aggiungerebbero la vista, i movimenti, i gesti, gli sguardi… In entrambi i casi sarei obbligato alla replica immediata, e il coinvolgimento sarebbe decisamente elevato. La comunicazione potrebbe assumere il carattere di una discussione accesa, finanche di un litigio. Aumentare il livello di mediazione grazie alle tecnologie disponibili, in questi casi, depura l’azione comunicativa di molti elementi personali, e di certo nei casi in questione questo agevolerebbe la comunicazione. Aumentare la distanza e evitare il tatto (strette di mano, abbracci, baci) anche. A volte. Con altre persone accade invece l’esatto contrario. Un livello elevato di mediazione non mi soddisfa, lascia comunque un senso di mancanza, di perdita, di desiderio di tutte quelle componenti parte dell’interconnessione umana concreta, personale, multisensoriale. Quindi, ben venga l’alto livello di mediazione che consente la tecnologia, con alcuni: una mail è sufficiente a risolvere l’esigenza comunicativa. Con altri non basta: è un complemento, un surrogato, nell’ambito di un’esigenza di interazione più articolata e ricca, al quale mi posso adattare, se costretto, ma certo a fatica. Del resto, il frame terrorismo detta norme di precauzione, di controllo, protocolli di sicurezza, ha cambiato il nostro modo di viaggiare. Allo stesso modo il “frame” emergenza sanitaria da virus detta nuove modalità dell’interconnessione, il distanziamento sociale, e cambia il nostro modo di comunicazione.
Quindi, senza demonizzare o celebrare nulla, si tratta come sempre di alzare il livello della nostra consapevolezza critica, rispetto alle risorse che abbiamo, e che la tecnologia ci offre, e rispetto alle cornici che orientano il nostro agire e che riflettono le condizioni in cui ci troviamo a vivere, che ci piaccia o meno.