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Il dossier migrazione nella politica USA: l’importanza di invertire rotta

Se ‘American First’ è il leit-motif che ha contraddistinto la Presidenza di Donald Trump (2017-2021), la migrazione come tematica ha ampiamente contribuito alla stesura della partitura. Di certo l’overture con rullo di tamburi e suono di fanfare con il discorso dell’Arizona del 2016 preannunciava il ritmo incalzante che sarebbe seguito: ‘Are you ready? We will build a great wall along the Southern border, and Mexico will pay for the wall. On day one, we will begin working on an impenetrable, physical, tall, powerful, beautiful southern border wall’. Poco conta che il muro non sia stato completato o che molti fondi siano andati alla ricostruzione di parti di questo: la gestione complessiva della migrazione è stata profondamente influenzata e plasmata a tal punto da allineare la posizione del partito Repubblicano e della Convention Repubblicana del 2020 all’agenda dell’America first proposta dal Presidente.

Non che l’Amministrazione Obama abbia brillato per cosmopolitismo: l’appellativo di ‘Deporter in Chief’ ci ricorda che anche il mandato democratico è stato criticato a più riprese su alcuni aspetti della politica migratoria e in modo più ampio (e con ammissione di colpa) per l’assenza di una piattaforma programmatica comprensiva e di un indirizzo politico chiaro. Ma le differenze, di forma e di sostanza, sono molteplici e su più aspetti.

In primo luogo, la narrazione del fenomeno. Se l’abbandono del politically correct è stato ormai sdoganato pressochè ovunque tra le leadership con una presunzione anti-sistema, con l’etichetta di ‘shithole countries’, in riferimento a quei paesi a cui tradizionalmente gli Stati Uniti destinano quote di immigrazione ai fini di protezione, si è probabilmente toccato il fondo. Non solo. È la virata securitaria che preoccupa, una descrizione del fenomeno tutto, legale e non, come negativo e finanche pericoloso per la sicurezza degli Stati Uniti. Il ‘Muslim’ travel-ban che vieta l’accesso ai migranti di certe nazioni (inizialmente tutte a maggioranza musulmana) ne è un esempio, con l’aggravante di trasformare la religione in strumento politico. Anche la migrazione regolare non ha motivo di essere se questa mina (ed è quasi certo che lo faccia nella retorica Trumpiana) la sicurezza economica degli americani. Americans first, in questo caso. E così nel 2017 gli Stati Uniti si ritirano dal Global Compact for Migration, primo tentativo internazionale (fortemente caldeggiato dalla Presidenza Obama) di discutere di migrazione e delle sue potenzialità, facendolo prima di tutti e portandosi dietro una serie di altri paesi ostili. Una leadership al contrario.

La migrazione non è stata un tema caldo della recente campagna elettorale: altri temi ‘più urgenti’ hanno trainato il dibattito e il Pew Research Center rilevava nell’estate 2020 come la migrazione non figurasse così in alto tra le preoccupazioni degli americani come in precedenza. Ma è bastata la presentazione del ‘Piano Biden’ per scatenare la reazione securitaria a colpi di tweets: ‘…Biden’s deadly migration policies will overwhelm taxpayers and open the floodgates to terrorists, jihadists, and violent extremists. Under my Administration, the safety of our families will always come FIRST!’

In secondo luogo, l’azione pratica. Sono circa 400 le azioni compiute attraverso un misto di ordini esecutivi, azioni amministrative, nomina di giudici nelle corti d’appello e accordi con paesi terzi per citare i più importanti. Per questo motivo, la mancata conclusione del muro è poca cosa: gli Stati Uniti sono già trincerati dietro una coltre di azioni fortemente restrittive. Il diritto di asilo figura tra le principali vittime, ma è la compressione in generale dei diritti a destare le maggiori preoccupazioni per la tenuta di un ordine liberal-democratico già ampiamente scosso dalla gestione delle ‘crisi migratorie’ dall’altra parte dell’Atlantico. Significativa è stata a questo proposito la riduzione ai minimi storici delle quote di rifugiati da reinsediare negli Stati Uniti, tradizionalmente tra i maggiori paesi di accoglienza attraverso questo programma. Ma non è su questo punto che la Presidenza ha inciampato (anche con Obama le quote erano state limitate). Lo scivolone ha coinvolto di nuovo il Messico, questa volta nel tentativo di cooptare il paese (tra le altre cose attraverso la minaccia di incrementare le tasse sulle importazioni) nella gestione dei flussi sempre più copiosi evidenziati nel 2018. Il piano ‘Remain in Mexico sbarrava da un lato la strada verso gli Stati Uniti e prefigurava al di fuori di questi la possibilità di richiedere asilo, spostando di fatto più a Sud il confine  e svuotando i centri delle precedenti zone di frontiera. La diffusione del coronavirus e le motivazioni di tutela della salute pubblica hanno puntellato ulteriormente il muro invisibile con il Messico. Ma la narrazione securitaria questa volta ha giocato a sfavore: diversamente dal passato i flussi in arrivo e in fuga dai paesi dell’America Latina avrebbero richiesto un’attenzione differente, testimoniata dall’impennata delle domande di protezione internazionale. Non solo. L’emergenza scaturita dai flussi in rapida ascesa non poteva e di fatto non ha giustificato la reclusione dei nuclei familiari e la separazione dei bambini dagli stessi. L’ampia mediatizzazione ha fatto il resto, così come era stato il caso di Alan Kurdi, annegato sulle coste turche nel tentativo di raggiungere l’agognata Europa nel 2015. Non è un caso che proprio questo passo falso abbia ispirato l’overture del Biden Plan for securing our values as a nation of immigrants, piattaforma programmatica sul dossier migrazione, che richiama valori e i doveri morali (di moral leadership parla Biden) degli Stati Uniti. Ma la contrazione dei diritti si è estesa oltre il confine, con la promessa di restringere il campo di azione delle sanctuary cities e incrementare dunque le deportazioni e con il tratto di penna che ha cancellato in pochi attimi il DACA, il programma che concedeva diritti di residenza (seppur temporanea) ai Dreamers, proprio i minori arrivati irregolarmente sul suolo statunitense. Joe Biden ha recuperato la retorica del ‘sogno americano’ e sicuramente modificato la narrazione del fenomeno, sottolineando come questo rafforzi e non indebolisca l’identità americana. Bisognerà aspettare però le nomine della squadra di governo (oltre che attendere la conformazione finale del Congresso) per appurare la carica innovatrice della nuova Amministrazione democratica.

La matrice progressista, invece, è stata da subito chiara, rappresentata dal lavoro della Unity Task-Force presieduta dallo stesso Biden e dal Senatore Bernie Sanders. Se non è pensabile che alcune delle proposte emerse in quell’occasione o altre ancora più estreme si concretizzino (basti pensare all’abolizione dell’ Immigration and Custom Enforcement -ICE, agenzia per il rimpatrio degli immigrati irregolari- di cui infatti non si trova traccia nel piano Biden) è verosimile però ritenere che altre politiche troveranno spazio nell’azione di governo, tra le quali: l’eliminazione del travel-ban per la maggior parte dei paesi a maggioranza musulmana (definito un-American dal Presidente eletto); la reintroduzione del programma a favore dei ‘Dreamers’; la fine della separazione dei nuclei familiari ai confini con il Messico; il ripristino di un efficace ed effettivo sistema di asilo attraverso l’incremento dei numero di rifugiati ammessi nel paese e la fine delle pratiche illecite al confine con il Messico; la definizione di piani più efficienti per la migrazione legale e per il processo di naturalizzazione. Il tutto accompagnato da un impegno ad intervenire sulle ‘root causes’ dei processi migratori, in linea con l’approccio europeo al fenomeno (ma si spera non con le sue enormi pecche).

Le fratture interne agli Stati Uniti sono tanto rilevanti quanto le tensioni create sul piano internazionale e le ferite all’ordine liberal-democratico. Si spera che l’indirizzo politico in materia di migrazione aiuti a ricomporre almeno alcune di queste.  

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