nella bassura dove s’affondava
una primavera inerte, senza memoria.
(Montale, Dora Markus)
La diffusione del coronavirus è in sé un fatto crudo e in parte ineluttabile, storia naturale che irrompe nella storia umana. Ma le sue conseguenze sul corso degli eventi politici e sociali non sono una fatalità, bensì l’effetto congiunto di circostanze e rapporti già esistenti, delle nostre scelte e delle nostre aspettative. Vorremmo qui analizzarla come un fatto totale, intendendo con ciò che l’epidemia manifesta e accelera convergenze e interconnessioni che già erano in opera a diversi livelli.
Ciò che ha rivelato, è in primo luogo la commistione fra sopravvivenza, autorità, scienza e accesso ai media. Senza l’allarme e le raccomandazioni dell’OMS non ci sarebbe stata una tempestiva allerta del pubblico così come dei governi nazionali. Più che le loro esitazioni, inevitabili in una crisi dall’evoluzione imprevedibile, ci sembra sia da notare la prontezza con cui hanno reagito in modi tutto sommato coerenti con le indicazioni degli organismi internazionali. Un ordine nella condotta di centinaia di milioni di persone può realizzarsi solo attraverso un coordinamento globale fra autorità dall’alto, e, dal basso, attraverso un accesso costante ai media che ne veicolano e ne spiegano le decisioni al pubblico. Da queste connessioni dipende, in frangenti del genere, la sopravvivenza delle persone. Le critiche al famigerato individualismo non dovrebbero far dimenticare che gli individui sono tanto più dipendenti dai media, dagli esperti e dalle autorità quanto meno sono abituati a costituire “comunità naturali” fatte di contatti diretti e frequenti.
L’individualismo non genera dunque indipendenza ma, al contrario, una crescente dipendenza dall’organizzazione sociale. Nel contesto attuale, non chi è solo, ma chi è privo della guida delle istituzioni e dei media è perduto. Solo da essi è possibile apprendere quali comportamenti siano più adatti alla conservazione della vita propria e altrui.
Ciò solleva il problema dell’autonomia del soggetto. A noi sembra che, allo stato attuale, sia illusorio parlare di autonomia: il soggetto può sopravvivere solo nella misura in cui è in collegamento con una massa di altre persone, con le autorità, con gli esperti e con i mezzi di comunicazione che mediano questi rapporti. La sua autonomia è relativa e si muove all’interno di questo recinto, il che suscita interrogativi sulla congruenza fra gli ideali liberali e la realtà dei fenomeni. Questi ci parlano di una sostanziale dipendenza dell’individuo da strutture che non può controllare ma che anzi lo sovrastano e lo guidano, nel bene e nel male. La distinzione etica e politica fra il bene e il male del soggetto, lungi dall’essere un residuo di morali antiquate, è anzi più che mai cruciale per giudicare le decisioni che coinvolgono i cittadini.
Un secondo livello è quello della compenetrazione fra salute, politica, economia e organizzazione. I commenti sulla crisi sottolineano la difficile conciliazione tra protezione della salute e mantenimento dell’economia, ma anche le frizioni che si possono creare tra l’esigenza di bloccare il contagio e quella di garantire il normale funzionamento di una nazione. Non tutte le pratiche possono essere eseguite a distanza. L’assistenza alle persone in difficoltà (senzatetto, anziani soli, carcerati) richiede in diversi casi la compresenza, così come non tutti i servizi possono essere svolti assicurando sempre e comunque il rispetto delle misure di sicurezza. Se il contenimento del contagio diventa la priorità assoluta, è inevitabile che altre istanze vengano penalizzate. Ma anche affermare il valore assoluto della salute è niente più che un auspicio, una volta che si tenga conto delle deroghe che quotidianamente accettiamo a questo principio: più di centomila vite umane potrebbero essere risparmiate ogni anno in Italia se si ponessero rigidi vincoli alla circolazione del traffico, alla vendita di tabacco e alcolici e all’inquinamento, per non parlare degli infortuni sul lavoro. Di fatto, in nome delle libertà individuali e dell’iniziativa economica tolleriamo gravi perdite sul versante della salute.
Nel caso dell’epidemia di coronavirus si è scelta una strada alternativa, dando invece priorità alla salvaguardia di vite umane, anche se è lecito supporre che il punto di vista dello stato non coincida con quello del pubblico. Quest’ultimo è preoccupato soprattutto della propria incolumità, mentre le istituzioni devono in primo luogo preservare la funzionalità delle strutture sanitarie. Forse ciò che spaventa di più il pubblico in questa morte non è tanto la malattia in sé, quanto il modo in cui si propaga. Il contagio fra estranei è inaccettabile per le nostre abitudini a stabilire rapporti personali solo sulla base di esplicito consenso e a fronte di precise garanzie. Altre cause di morte non prevedono quel contatto umano diretto e casuale al quale siamo ormai allergici e risultano quindi più tollerabili. Comunque stiano le cose, possiamo anche accogliere la priorità data alla salute come un saggio ravvedimento; ma dobbiamo essere consapevoli che si tratta di un’eccezione terminata la quale si tornerà alla regola, ossia al bilanciamento spesso sfavorevole fra tutela della salute e promozione dell’economia, e a libertà come quella di assumere comportamenti individuali lesivi del bene pubblico (uso indiscriminato dell’auto, attività produttive inquinanti, consumi eccessivi, perseguimento esclusivo del proprio interesse e comodità). Alcuni autori fra i più profondi del Novecento – Simone Weil e Gandhi fra gli altri – hanno ricordato l’importanza dei doveri verso la comunità a completamento di un discorso esclusivamente concentrato sui diritti individuali. È uno spunto che potrebbe portarci lontano.
La terza totalità è quella dell’attenzione: la cronaca relativa al virus monopolizza l’interesse dei media, del pubblico, delle autorità e delle organizzazioni. Un nemico invisibile è straordinariamente adatto ad animare uno spettacolo totale: possiamo immaginarlo ubiquo, imprendibile, terribile e quindi spostarci continuamente da una scena all’altra senza uscire mai dalla stessa recita. Il protagonista non può smentire; tanto più le nostre attese, propensioni e timori hanno libero corso. Il virus, in quanto bersaglio assente, rivela in quale direzione puntano le nostre volontà congiunte: quella di un isolamento mediato in cui ciascuno, nella propria cellula, riceve informazioni e istruzioni, produce, consuma e gestisce rapporti interpersonali – in sostanza, si relaziona con il mondo – attraverso dispositivi in collegamento a distanza.
L’assorbimento completo dell’attenzione fa sì che le energie vengano sottratte ad altre attività e concentrate sul virus, con netta divisione del lavoro tra iperattività di chi è chiamato ad agire in prima linea e immobilità di tutti gli altri. L’emergenza ha pressoché paralizzato in poche settimane lavoro, sanità, politica, istruzione, trasporti, commercio, socialità. Assieme alle occupazioni, ha sigillato gli orizzonti. Quel mondo che sembrava tanto vasto, poliedrico e complesso si è condensato in un unico punto, come in un big bang alla rovescia. Politiche, relazioni e mete da lungo tempo perseguite – prime fra tutte la competitività e la globalizzazione – sono state interrotte da un giorno all’altro, a quanto pare senza troppo sforzo o rimpianto.

Difficile sottrarsi alla conclusione che la vita di prima, la famosa vita normale che sembrava tenerci tanto impegnati, in fondo avesse perso di senso, e non solo per i decisori ma anche per i cittadini. Si è parlato di guerra contro il virus e di economia di guerra. Ma dietro tutto questo si dovrà forse scorgere un desiderio di guerra. Non diretto, nel senso dell’intenzione di innescare un conflitto violento, ma indiretto: ossia della guerra in quanto sospensione di una quotidianità le cui diverse attività non contano più molto nemmeno per chi le svolge o per chi, nella lotta partitica, le difende con vigore.
C’è qualcosa di incongruo e di stonato in questa improvvisa crociata per la salute pubblica che sospende e inverte le politiche degli scorsi anni. Soprattutto perché la crociata è condotta in un’atmosfera alterata di psicodramma ipnotico e di frenesia. Soprattutto perché non è affatto evidente che questa virata sia dovuta a un’inversione di valori, per cui ciò che fino a ieri era sacrificabile – le vite umane, la salute pubblica – oggi sarebbe diventato l’idolo del giorno. Più che a un rinsavimento delle coscienze, forse ci troviamo di fronte a una schizofrenia del sistema.
Vi contribuisce anche l’impressione di una specie di populismo dall’alto. La lotta contro il virus – e sarà la nostra quarta convergenza – è un tema adatto a radunare opinioni di destra e di sinistra. Sembra cioè capace di raccogliere quel consenso che iniziative recenti quali il reddito di cittadinanza o le campagne contro l’immigrazione non hanno incontrato. Il populismo dall’alto permette alle autorità un migliore controllo della popolazione. Il prospettato uso di droni e dati di telefonia per tracciare gli spostamenti dei contagiati o per monitorare e disperdere assembramenti, configura addirittura un’efficienza ingegneristica nell’incanalare i movimenti dei cittadini. Difenderli contro sé stessi e contro connazionali benintenzionati ma pericolosi è il movente perfetto per introdurre nuove tecniche di sorveglianza. Ecco allora uno scopo progressista – la difesa della salute – che trova un sostegno dall’alto nei pareri degli scienziati e dal basso nell’elettorato populista e che viene realizzato con modalità autoritarie nel quadro formale di una democrazia rappresentativa. Ciascuno può trovarvi elementi di proprio gusto. La convergenza politica si mescola qui con l’indistinzione ideologica e con l’innovazione tecnologica, costituendo un apparato inedito.
Tutti guardiamo la stessa cosa, eppure ciascuno vede ciò che più lo interessa: le previsioni della scienza, la difesa della salute, i rischi per l’economia, i vantaggi per l’ambiente, il rallentamento della globalizzazione, il risveglio della solidarietà, le strategie dei partiti, le reazioni del pubblico, la tragedia nazionale, le acrobazie delle istituzioni, le possibilità della tecnica e così via. La storia tuttavia non è la somma delle soggettività, bensì quello sviluppo imprevisto che le rivela a sé stesse. Occorre quindi sforzarsi di leggere il presente non in base ai propri auspici o paure, ma cercando di riconoscere e anticipare il percorso che disegna.
Il quinto livello che vorremmo analizzare è la convergenza internazionale nelle risposte. Sappiamo che la Cina, dopo averci inviato il male, ci ha fornito anche il rimedio: le misure adottate in Italia fanno esplicito riferimento a quelle praticate nello Hubei. Quello che ci interessa non è discuterne l’efficacia, quanto notare come questa convergenza sia coerente con altri avvenimenti nel panorama politico recente. Si è spesso preteso che la Cina diventasse come l’occidente, nel senso di accoglierne i valori liberali. Da qualche anno a questa parte si ha invece l’impressione di assistere, di fatto, a uno spostamento degli uni e degli altri verso un regime intermedio, provvisoriamente definito in Europa come populismo, sovranismo o democrazia illiberale, e che in Cina prende l’aspetto di una grande impresa di miglioramento dei livelli di vita della popolazione con conseguente aumento dei consumi, intento compatibile con gli obiettivi delle democrazie capitaliste. Una forma ibrida di semi-autoritarismo o di liberalismo a intermittenza sostenuto da media, mercato, scienza e tecnologia potrebbe essere l’effetto a lungo termine di un incontro sempre più stretto fra ciò che resta dei due blocchi della Guerra fredda. Il virus, pericolo per l’intera umanità privo di connotazione ideologica, potrebbe diventare il simbolo di questo movimento che sta modellando il ventunesimo secolo. In questo senso, nonostante sembri rompere con la normalità, l’epidemia non demolisce l’edificio della storia in corso, ma anzi vi aggiunge un mattone. L’occidente reagisce con la chiusura e le restrizioni a eventi che sono in parte l’esito di processi di apertura – nel senso della liberalizzazione e della globalizzazione – avviati dall’occidente stesso.
A livello dei singoli, l’emergenza sanitaria sancisce il trionfo dell’impotenza e dell’isolamento: l’unica possibilità di agire è non fare nulla e chiudersi in casa, affidandosi al soccorso delle autorità, degli specialisti e dei media. Guardare gli altri fare è la tipica postura dello spettatore. Il corpo sociale, immobilizzato, osserva sugli schermi i chirurghi operare su di lui. In questa congiuntura, il cittadino responsabile è quello che non valuta in base alla propria coscienza e ragione, ma si attiene strettamente ai decreti delle autorità. Questi decreti gli insegnano che la sua solidarietà si esprime attraverso l’isolamento e l’inazione: gli insegnano insomma la sua impotenza e lo relegano al ruolo di spettatore. Non è detto che questo sia ingiustificato, se si tratta di un periodo limitato e se produce benefici dimostrabili. Ma è comunque significativo che un esecutivo notoriamente debole come quello italiano riesca meglio a far rispettare decisioni draconiane in periodo di emergenza che le normali leggi del parlamento in tempi di piena libertà. Anche in alcuni paesi esteri è possibile – e in certi casi altamente probabile – che la crisi sia stata accolta come un surrogato di soluzione a problemi che la classe al potere non è in grado di gestire (dissidi interni, leader sotto attacco, economie precarie, pianificazione miope). Per una politica disorientata, un’epidemia o qualunque altra calamità non è necessariamente una maledizione, almeno nel breve periodo: tiene occupata la popolazione, sospende le proteste di piazza, legittima manovre impopolari, rinfocola la coesione nazionale.
I problemi veri, naturalmente, si aprono sul lungo periodo. La spinta alla totalità ha raggiunto nei giorni scorsi un’ulteriore soglia: quella che era iniziata come un’emergenza sanitaria in alcuni comuni del nord Italia, sta diventando un bivio cruciale per l’Unione Europea. Il nodo era noto da tempo: il ferreo patto di stabilità difeso dalla Germania andava stretto a diversi stati membri, primi fra tutti Italia e Francia. La crisi innescata dal virus ha accelerato e amplificato in modo drammatico una tensione che da anni serpeggiava, mettendo allo scoperto fragilità e rigidità di un’integrazione incompiuta. Riletto oggi, il nome del programma europeo Horizon 2020 rischia di apparire come una beffa del destino.
Comunque andranno le cose, da questo trauma la democrazia non potrà uscire immutata: potrà soltanto migliorare o deteriorarsi. Il percorso di ristabilimento non sarà omogeneo: all’interno del nostro paese le realtà più solide avranno maggiori probabilità di riprendersi, mentre quelle già vulnerabili ne usciranno ancora più indebolite. La prova in ogni caso riguarda tutti. L’Europa e in particolare l’Italia hanno almeno tre carte da giocare nel dopo-emergenza: perseguire con decisione gli obiettivi della parità di genere, della salvaguardia dell’ambiente e della partecipazione, la quale richiede coraggiose politiche infrastrutturali, lavorative e redistributive. Sarebbe anche, crediamo, il modo più coerente di ricordare i morti. Nel corso dell’epidemia, i cittadini hanno sperimentato in vivo quale potrebbe essere altrimenti la vita sotto un regime paternalista, mediocratico e chiuso nei propri confini, una sorta di semi-dittatura post-ideologica che non ha nulla da promettere se non un tentativo disperato di portare in salvo qualche privilegio dal naufragio delle democrazie consumistiche.
Alla base delle politiche che fino a ieri limitavano la libertà dei migranti – la “loro” libertà – e oggi, per tutt’altro motivo, limitano la “nostra” costringendoci a rimanere in casa e a rischiare sanzioni per comportamenti abituali come uscire a fare un giro, vi è una comune richiesta di sicurezza e di riduzione dell’incertezza. Ma siamo costretti a constatare che la paura del virus non ferma il virus, così come la paura delle migrazioni non ferma le migrazioni. La storia non attende rispettosamente fuori dalle porte chiuse. Ciò che possiamo e dobbiamo pretendere da istituzioni, media, economia e scienza sono politiche avvedute, informazioni attendibili e giustizia sociale. Il resto fa parte del rischio connesso al cambiamento e dovremmo accettarlo se a quel cambiamento intendiamo partecipare. Pretendere dalle autorità, dai mezzi di comunicazione e dagli esperti garanzie assolute e rassicurazioni costanti non renderà la nostra vita più protetta: alimenterà soltanto l’ansia e quella dipendenza che tutti loro sono ben disposti a concedere, in cambio della nostra libertà e autonomia.