Fra le vittime del Covid-19 si segnalano le istituzioni culturali. Biblioteche e archivi sopravviveranno di sicuro, magari contingentando gli accessi; più incerto appare il destino dei musei. Fra il 2015 e il 2019 i musei italiani hanno conosciuto successi eccezionali, incrementando considerevolmente visitatori ed entrate proprie. Il turismo culturale, domestico ed internazionale, ha accompagnato questa golden age (oggi possiamo chiamarla così); le gite scolastiche hanno confermato la tendenza positiva. È vero che il consumo di mostre ed eventi si è adattato al clima dominante, segnato dalla “presentificazione”, affermandosi soprattutto come fenomeno di costume; è però altrettanto indubbio che quantità d’individui inimmaginabili fino a pochi lustri fa si sono accostati a beni del patrimonio.
Questo quadro positivo, nel quale sono ben collocati anche i musei accademici (inclusi quelli di Bologna, che nel 2019 hanno toccato la cifra record di oltre 190.000 visitatori complessivi), è crollato in poche settimane. Il primo alt, poi la debole riapertura, quindi la chiusura sine die – oggi sappiamo che i battenti saranno riaperti il 18 maggio – hanno distrutto progetti, prenotazioni, mostre, costringendo le istituzioni, dopo un primo sconcerto, ad una brusca riconversione in chiave social. Gli esiti sono stati molto diversi a seconda dell’infrastruttura tecnica e delle competenze disponibili con continuità: ha prevalso, salvo pochi casi, un inevitabile dilettantismo, che ha fatto il paio con il trasferimento massiccio delle lezioni scolastiche su piattaforme digitali. Come è stato argutamente osservato, è come se alcune funzioni culturali fossero state intubate.

Veniamo alle prospettive, dopo un bimestre di chiusura forzata. In generale, i musei risentiranno della contrazione dei finanziamenti assicurati dai Comuni, principali detentori di beni culturali nel nostro paese: quei fondi, infatti, sono stati spesso appostati nei bilanci, immaginando entrate capienti che non si verificheranno (dalle tasse di soggiorno alle multe: di norma le “sorgenti” sono quelle). Le Regioni è probabile manterranno le previsioni di spesa (l’Emilia-Romagna lo farà), ma sappiamo che quei denari fungono da cofinanziamento e, da soli, non sono sufficienti a garantire la continuità delle attività. Le Fondazioni bancarie, d’altro canto, sono chiamate a sostenere l’emergenza sociale e sanitaria e ben difficilmente potranno compensare la caduta degli investimenti.
Dall’osservatorio regionale, per ciò che riguarda i musei, il panorama è ancora confuso ma certamente drammatico. In primo luogo, non è chiaro quale sarà il pubblico dal 2021 in avanti. Si erano impiegati anni per abituare molti cittadini alla frequentazione delle collezioni; tutto ciò è stato spazzato via e non è detto che quei particolari “consumatori” vi saranno ancora. La disponibilità di materiali, visite guidate, filmati, interviste sui social ha attualmente soprattutto la funzione di non spezzare il filo della continuità culturale; ma non sappiamo se, sotteso ad esso, ci sarà una domanda culturale e in quali forme essa si manifesterà. Mostre in formato ridotto? Connessione più stretta fra eventi fruiti attraverso il web ed “esperienze” in loco? Si pensi solo al mercato degli ausili alla fruizione degli oggetti: le audioguide sono, allo stato attuale, obsolete e inutilizzabili. Torneranno le vecchie didascalie, insieme alle app scaricabili sullo smartphone? Oppure le collezioni saranno di nuovo appannaggio di minoranze colte e sofisticate, disertate dai più?

Vorrei concludere con una nota positiva e un’idea che riguarda i musei accademici. Rispetto agli altri, i musei delle Università, per la loro natura ibrida, mostrano nella crisi una maggiore resilienza, che può trasformarsi in un’opportunità. L’esperienza collettiva del Covid-19 ha infatti reso palmare il ritorno in grande stile della storia naturale nella vicenda umana. Gli studiosi sanno benissimo che la storia naturale non se n’è in realtà mai andata, ma la maggior parte di noi, salvo esigue minoranze colpite casualmente da eventi catastrofici, ha vissuto per molto tempo come se il proprio orizzonte fosse dominato da un tendenziale controllo degli eventi, presenti e futuri. L’irruzione improvvisa e dolorosa, a scala planetaria, di questo “regime temporale” caduto nell’oblio e rimosso, rende necessaria un’alfabetizzazione culturale che ripristini gli elementi prospettici compressi dall’esperienza della “presentificazione”, aiutandoci a recuperare una percezione (e una responsabilità) a livello di specie. Una delle cose più grottesche di questi mesi è stato il tentativo, peraltro presto fallito, da parte dei governi, di “nazionalizzare” il rapporto con la pandemia, immaginando tempi, reazioni, isolamenti in proprio, come se fosse possibile erigere barriere invalicabili alle frontiere. Gli stessi politici hanno spesso usato il linguaggio bellico, come se fossimo sul Piave nel 1918.
Amenità a parte, l’idea è questa: i musei accademici e scientifici sono il prodotto intenzionale dell’incrocio fra storia naturale e storia umana, fin dalle loro origini cinquecentesche. Sono quindi il luogo in cui eventi come le pandemie possono essere meglio raccontati; abbiamo, ad esempio, le cere che narrano la grande lotta contro il vaiolo in età napoleonica: e non è che un minimo spunto. Si tratta di un’occasione unica per agganciare un vasto pubblico oggi sensibile, attento, disponibile, perché ferito, impaurito, desideroso di risposte. Più di altre istituzioni culturali possiamo quindi svolgere una missione speciale per ristabilire dati di realtà e pensieri di nuovo prospettici a beneficio della collettività, approfittando di un contesto unico e attraente. Sarebbe un peccato non provarci.