Contributo di Piero Ignazi
Il tempo del coronavirus ci mette di fronte a un conflitto tra diritti fondamentali. Quello della salute e quindi della vita e quello delle libertà individuali. Oggi il primo prevale sui secondi. Il rischio di perdere molte vite ha portato il nostro governo, come molti altri in Europa, a limitare la libertà di circolazione e di movimento.
Seguendo indicazioni di epidemiologi viene adottato il modello cinese, non quello coreano. La ragione di questa scelta, dicono sempre i tecnici, è che la Corea disponeva di una quantità massiccia di tamponi per monitorare la popolazione – siamo oltre i 600.000 – tale da poter identificare e isolare, anche grazie ad un uso invasivo delle tecnologie di riconoscimento , le persone positive al coronavirus.
In mancanza di questo stock, che all’epoca della Sars il governo coreano aveva saggiamente accumulato nei depositi, non rimane che l’antica, classica quarantena. Tutti chiusi in casa nella speranza che passi il morbo. E, per fortuna, senza fare le processioni, come ai tempi della peste manzoniana.
Il problema è che la quarantena imposta a tutto un paese è ben diverso da una misura limitata e circoscritta geograficamente come per il colera di Napoli a fine Ottocento. Siamo ora ad una limitazione forte e penalmente sanzionata dell’espressione di una libertà fondamentale. Questo è il punto. E’ giusto farlo in nome di un interesse superiore, superiore persino a quello della libertà individuale di movimento?
La questione posta in termini astratti non ha una risposta univoca. Senza vita infatti non ci sono libertà di sorta. Ma una vita senza libertà è vita? Almeno come noi la concepiamo in Occidente nelle democrazie liberali consolidate, no.
Non per nulla, non solo in tempi recenti e in questo emisfero, ma nella storia e dovunque nel mondo c’è chi ha dato la vita per la libertà. E’ quindi un bene prezioso e “delicato”, nel senso che è difficile da maneggiare.
Tutti gli autoritarismi nascono lamentando l’eccesso di libertà. Se non è tenuta a freno crea disordine rispetto al bene superiore dell’ordine costituito , di fronte al quale la libertà non ha alcun valore. Conta il tutto, mentre il particolare – e l’individuale – è solo un orpello.
Questo ragionamento non riguarda certo la nostra situazione che è ben diversa, ma l’invocazione del “modello cinese” illumina un lato oscuro della cultura politica italiana. L’invocazione di un’ autorità che veda e provveda non è aliena alla nostra cultura, nella quale le chiese (cattolica e marxista) per molto tempo hanno considerato i diritti individuali una sorta di mollezza borghese . E anche se oggi sono scomparsi i rappresentanti politici di quelle chiese, ne sono emersi altri che enfatizzano il primato della nazione e dello stato (forte) e lasciano nelle retrovie le garanzie costituzionali.
La situazione di eccezionalità nella quel ci troviamo con la connessa compressione di libertà non può che essere un unicum circoscritto nel tempo . Non c’è nulla di più pericoloso dell’assuefazione a questo stravolgimento della nostra vita.
In nome di interessi superiori la prossima volta si potrebbe spingere il margine un po’ più oltre, nel tempo e nelle forme. Meglio fermarsi prima. Perché non è per nulla rassicurante sentire il presidente della regione Lombardia (da cui si attende ancora un mea culpa politico per la distruzione della sanità pubblica lombarda da parte dei governi della destra: 1 ventilatore ogni 4.130 abitanti contro 1 ogni 2.250 in Emilia-Romagna….) dire: “se non lo capite con le buone allora…”.