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Chi ha paura della matematica?

Ci risiamo! Una volta ancora mi capita di ascoltare il personaggio televisivo di turno che, con un sorriso un po’ gigione, dice in camera: “Mah, io a scuola andavo malissimo in matematica!”. Altre varianti sentite nel corso degli anni: sentimentale: “Tra me e la matematica non è mai scoppiato l’amore”; astronomica: “Io e la matematica abitiamo su pianeti diversi”; aforistica: “Non sono io che odio la matematica; è la matematica che odia me”; e via inventando…

Ho sempre una mini-reazione di ruvidità auricolare al sentire queste frasi, reazione che si amplifica quando a pronunciarle sono personaggi famosi, peggio se intellettuali o politici. Non si può contestare a nessuno il diritto di dire che non si è o non si era tanto bravi in matematica, nemmeno ad un cantante, un’atleta o una scrittrice famosi. In fondo non gli si può neanche negare il diritto di usare questa confessione per una sempre utile captatio benevolentiae nei confronti dello spettatore: “Vedi, anch’io andavo male in matematica, come te, e sono diventata famosa. Né tu né io siamo stupidi. Compra il mio libro!” In realtà riconosco che è questo che mi crea ruvidità, quel senso di autoassoluzione al ribasso. Al ribasso perché non si cerca una complicità con l’altro su ciò che si ha in comune, ma su ciò che non si ha, seppure in comune. Ma è una complicità un po’ falsa, perché a lei (o lui) i risultati scolastici non hanno impedito di avere quel tanto di notorietà per andare in televisione. A te invece è solo richiesto di provare simpatia.

Al di là delle mie reazioni istintive però mi chiedo: perché nella mia vita ho sentito così tante persone dire che andavano male in matematica e così poche dire che andavano male in italiano? Certamente non è vero che la popolazione scolastica italiana tenda ad andare meglio nelle materie letterarie che in matematica, vedi ad es. gli ultimi risultati dei test OCSE-PISA (*) Perché così tanti fra noi, indipendentemente dal proprio mestiere o collocazione sociale, sarebbero piuttosto imbarazzati di ammettere che di un quadro famoso non riescono ad individuare nemmeno il periodo storico, per non parlare dell’autore, quando pure colleghi accademici di discipline scientifiche non si fanno problemi a dirmi che con le derivate hanno penato tantissimo al primo anno dell’università? Il punto qui non è che si debba essere tutti bravi in matematica o nelle scienze — ci mancherebbe — ma perché è così socialmente accettabile sfoggiare le proprie difficoltà con la matematica, al punto di avere il sospetto che qualcuno le ingigantisca a bella posta? Questo mi sembra un fenomeno molto italiano, che percepisco meno in altre culture. Certamente è molto meno presente nella cultura anglosassone o in quella ebraica, per fare due esempi di cui mi sento sicuro. Di nuovo, non sto parlando del livello di competenza matematica della popolazione, su cui non ce la caviamo poi male, come richiamato (**), ma del ruolo che si attribuisce alle abilità e competenze matematiche nella società.

Ammetto, non ho mai avviato uno studio rigoroso della questione, ma in maniera amatoriale, nel corso degli anni, ho chiesto un’opinione a tutti coloro che pensavo potessero darmene una interessante. L’intersezione delle risposte che ho raccolto è anche l’indiziato numero uno di molte storture della cultura italiana, cioè la filosofia neoidealista di Croce e Gentile, con l’annessa presunta inferiorità dei saperi scientifici e tecnici (***). Non dubito che questa abbia giocato un ruolo importante — d’altronde stavolta sono io a confessare poca competenza su questi temi — ma mi chiedo se un secolo di storia dalla riforma Gentile (1922-23), tanto per fissare un riferimento temporale, un secolo di vertiginoso progresso scientifico, di una guerra mondiale vinta grazie ad una supremazia scientifica prima ancora che tecnologica (dal progetto Manhattan al lavoro di Turing), il secolo dei computer e del digitale, dell’uomo sulla Luna, di internet e del suo massiccio impatto sulla società e sul portafoglio di qualche nerd in qualche garage californiano, il secolo che ci ha portato all’epoca degli algoritmi come onnipresenti compagni di vita, non sia riuscito ad affrancare la matematica da un certo ruolo di Cenerentola della cultura: protagonista certo, come la ragazza della favola, bella anche e amata da persone importanti, pure invidiata magari, ma non davvero invitata al gran ballo.

Ovviamente una risposta non ce l’ho nemmeno io. Però mi sento di dare un messaggio a quelli che amano la matematica, o almeno ne sono attratti e stimolati, soprattutto ai più giovani ai quali ancora si chiede di scegliere se fare la pupa o il secchione (o viceversa): la matematica non è solo fondamentale, è anche bella e cool. E pure voi lo siete!

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(*) Sebbene quei dati, come tutti i dati di carattere statistico, meritino una riflessione più approfondita di un titolone ad effetto sui mezzi di comunicazione. Da notare peraltro l’ottimo piazzamento degli studenti del Nord-Est italiano nella “classifica” — le virgolette sono d’obbligo — delle abilità matematiche.

(**) Non che manchino strafalcioni clamorosi da parte di chi non dovrebbe farne, tipo un importante giornale nazionale che l’altro giorno titolava: “Trasporto aereo in crisi: le prenotazioni dei voli per l’Italia sono in calo del 195%”. Non si trattava di un refuso ma di una insensata somma di dati percentuali. Il titolo è stato poi corretto.

(***) È curioso che l’evento che viene talvolta considerato come l’atto di divorzio fra la cultura umanistica e la cultura scientifica in Italia ebbe come protagonisti proprio un matematico, Federigo Enriques, e la nostra città. Enriques organizzò a Bologna, nell’aprile del 1911, il IV Congresso Internazionale di Filosofia, in preparazione di, durante e dopo il quale si dipanò un’accesa disputa dottrinale (e personale) fra gli esponenti della filosofia neoidealista da una parte, in particolare Gentile, e quelli del pensiero scientifico-positivista dall’altra, rappresentati appunto da Enriques. La disputa ebbe grande eco mediatica, per il tempo, cosa che aiutò a creare il vulnus fra le due culture che ancora oggi si avverte.

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