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Oltre i confini dell’emergenza. Diritto di mobilità, giustizia sociale e necessità di cercare nuove narrazioni.

Noemi Usai giustizia sociale, emergenza, Musarò

Un organismo minuscolo, invisibile e inodore, attraversa le frontiere e costringe individui e stati-nazione a tracciare nuovi confini dentro cui trincerarsi, per ritrovarsi comunque sempre più indifesi. Un essere infimo che agisce come un attore superiore, capace di imporre la sua volontà su quanti credevano di possedere poteri enormi e dispositivi all’avanguardia. Fossimo religiosi o solo di altri tempi lo avremmo definito un segno di Dio o una divinità esso stesso. Ma la nostra iper-moderna arroganza antropocentrica lo riduce a nemico da combattere in quella che da più parti viene definita come una guerra: la prima vera guerra mondiale. E come fossimo davvero in guerra attendiamo ogni sera il bollettino dei morti e dei sopravvissuti, descriviamo il fronte del virus e la trincea negli ospedali, in attesa che arrivino presto nuove armi per abbattere il nemico, o almeno limitarne i danni.

Ma questo linguaggio bellico, che riduce la sicurezza a controllo e incornicia la realtà perpetuando la dicotomia amico/nemico, rinforza l’idea muscolare di odio invece che privilegiare la protezione, la condivisione e la cura. E soprattutto ci fa perdere l’occasione di ascoltare i segnali (di allarme, senza dubbio) che da più parti giungono, di osservare un fenomeno nuovo e sforzarsi di trovare parole diverse per descriverlo. Un’occasione per riflettere sulla fragilità di questo sistema capitalistico globale e sulla necessità di agire verso un cambiamento sistemico del nostro stile di vita, a partire dalle relazioni tra esseri umani e tra noi e il pianeta. Un’occasione per re-immaginare tutto, compreso il grande lavoro che ci toccherà fare una volta passata l’emergenza. Perché passerà. E allora bisognerà tornare a ciò che ora abbiamo lasciato sullo sfondo, l’ordinaria amministrazione oggi sospesa, con tutti le questioni sociali, politiche ed economiche oscurate dal monopolio che la diffusione del coronavirus esercita sulla politica e nei media.

In questo scenario di confinamento forzato nella propria sovranità casalinga è scomparsa dal dibattito pubblico, tra le altre, la pressione sui confini di quanti tentano di entrare irregolarmente in Europa. Non che non ci siano sempre migliaia di persone costrette a rischiare la morte nel Mediterraneo per cercare asilo sull’altra sponda: la media dei 50 sbarchi al giorno nell’ultimo periodo pre-coronavirus si è ridotta a circa 8, ma comunque continua; mentre lungo il confine tra Turchia e Grecia si contano ancora circa 20.000 persone che hanno seguito la dichiarazione del presidente turco Erdogan di “apertura” delle frontiere verso l’Europa.

Ma i tempi sono cambiati e lo sbarco in Europa del nemico invisibile ha oscurato ogni altra emergenza. In primis quella dei migranti e richiedenti asilo.

Chi ricorda le parole dei tre “presidenti europei” – von der Leyen (Commissione), David Sassoli (Parlamento) e Charles Michel (Consiglio europeo) – che solo poche settimane fa sono volati in Grecia per portare la loro solidarietà al governo di Atene il quale, a sua volta, aveva appena deciso di sospendere per un mese il diritto di presentare domanda d’asilo?

“La nostra priorità in Grecia è preservare l’ordine ai confini esterni dell’Ue”, aveva detto la presidente della Commissione europea. La stessa von der Leyen che era ministro della Difesa nel governo Merkel quando nei mesi caldi del grande esodo del 2015 – con un milione di migranti e richiedenti asilo in viaggio verso l’Europa – aveva pronunciato quel famoso “possiamo farcela”.

Chi ricorda le immagini raccapriccianti degli abitanti dell’isola di Lesbo che impedivano l’attracco dei gommoni carichi di persone (molti bambini) in fuga dalla guerra? E quelle dell’incendio nel campo profughi più grande d’Europa, a Moria, sempre a Lesbo, dove vivono 21mila persone in una struttura che è stata costruita per ospitarne meno di tremila? Sono trascorse due settimane appena, ma sembrano secoli addietro o l’eco di un altro pianeta.

Sconvolto dall’emergenza coronavirus, il Vecchio continente ha deciso di blindare (ancora con più forza) i confini, dimostrando ancora una volta la propria inflessibilità e indifferenza con i potenziali rifugiati al di là della frontiera. Una risposta in linea con il collasso della solidarietà intraeuropea e le politiche securitarie che da decenni caratterizzano il fronte migratorio.

Le stesse politiche alla base dello sconvolgimento semantico, oltre che etico, a cui abbiamo assistito negli ultimi anni: dall’iper-visibilità dei salvataggi in mare durante la missione militare-umanitaria Mare Nostrum del 2014 sino ai porti chiusi con i decreti sicurezza e la criminalizzazione delle ONG del 2018. Ben 18 le inchieste a carico delle ONG che operavano nel Mediterraneo, di cui quattro sono state archiviate prima di giungere a un processo e una ha condotto a un’assoluzione. Tutte le altre sono ancora aperte, ma nessuna di queste è ancora sfociata in un processo. Inchieste che hanno fatto eco alla chiusura identitaria e alla retorica sovranista, facendo annegare l’afflato solidale del cosmopolitismo e cancellando una storia di comuni contaminazioni (!). Al punto che la solidarietà con chi cerca rifugio viene oggi guardata con sospetto, perseguita come reato. E il male riconfigurato come normalità. Banalità.

Oggi a cercare rifugio siamo noi, italiani “untori” e indebitati, così vulnerabili e bisognosi di aiuto da accogliere con le fanfare i medici cinesi, cubani e albanesi appena giunti per supportare i tanti connazionali in prima linea.

Con la diffusione del nuovo nemico, infimo e invisibile, quei muri edificati dalla paura con la promessa di difendere i cittadini dai pericoli esterni appaiono in tutta la loro inconsistenza. Meri spettacoli mediatici che hanno fatto del migrante il perfetto capro espiatorio in una società dove chi ha perso reddito e futuro rischia di diventare la maggioranza.

Che sia l’occasione buona per vedere in questa “nostra” emergenza un segnale non solo negativo? Un invito a ripensare la nostra comune appartenenza ad un pianeta finito, per rimettere al centro l’ospitalità come prima regola di condotta etica dell’umanità (come scriveva Kant già nel 1795 nel suo Progetto di Pace perpetua). Ripensando il diritto alla mobilità – tra i maggiori fattori di stratificazione e gerarchizzazione sociale – proprio oggi che ne sperimentiamo i limiti sulla nostra pelle.

Partendo da casa nostra, dai diritti da garantire a tutti, in primis a quanti soffrono maggiormente le conseguenze della crescente disuguaglianza sociale, senza distinzione di nazionalità: dai senza dimora ai carcerati, dai richiedenti asilo nei centri di accoglienza sovraffollati e con carenze igieniche ai braccianti sfruttati dai caporali che vivono nella stessa baracca di pochi metri, senza nessuna possibilità di mantenere le distanze di sicurezza.

Circola in questi giorni una petizione lanciata da Meltingpot che chiede una sanatoria generalizzata per i circa 700 mila stranieri sprovvisti del permesso di soggiorno, e quindi deprivati dei diritti fondamentali, in primo luogo di quello alla salute, a causa delle politiche di chiusura delle frontiere praticate dai diversi governi. Una sanatoria che vada oltre lo strumento dell’espulsione – tra l’altro impossibile da eseguire dato il numero così ingente – e che permetta di aprire le porte ad una futura regolarizzazione individuale a regime. Utopia? Il governo del Portogallo lo ha appena fatto, probabilmente leggendo nella diffusione del coronavirus la prova che di fronte alla malattia siamo tutti uguali e tutti dobbiamo aver eguale diritto alle cure mediche.

L’emergenza sanitaria passerà, e probabilmente non sarà l’ultima. Lascerà molte vittime sul campo, per le quali occorre nutrire profondo rispetto. Ma starà a chi resta il compito di rimboccarsi le maniche e re-immaginare il lavoro da fare. In primis inventando narrative diverse per definire quel che è accaduto, sperimentando schemi e discorsi capaci di aprire nuove possibilità di solidarietà e giustizia sociale, senza più ignorare un comune destino di vulnerabilità. Un destino, volenti o nolenti, senza frontiere.

Tutte le immagini del post sono foto di Noemi Usai, i diritti di riproduzione sono riservati.

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