Due sono i sentimenti che colpiscono il ricercatore che legge un articolo di divulgazione scientifica del suo settore sulla stampa generalista: la legittima soddisfazione di vedere il proprio settore di studi raccontato a tutti e la frustrazione di scoprire le inesattezze e le storture che a volte accompagnano questi articoli. Ma posticipiamo qui una premessa: in Italia esistono ottimi giornalisti scientifici. Chiunque abbia avuto a che fare con la stampa sa che i professionisti non mancano; non solo, come ovvio, all’interno di riviste specializzate nella divulgazione, ma anche sui quotidiani.
Terminata però la premessa, è chiaro che in più di un’occasione capiti di leggere cose che non stanno nè in cielo, nè in terra. Succede per lo più quando ad occuparsi di un articolo di divulgazione scientifica è un giornalista che non ha una specifica preparazione sull’argomento. Come detto prima infatti, non è la mancanza di personale qualificato a dare origine ad articoli come questo (https://www.repubblica.it/scienze/2019/04/01/news/un_nuovo_batterio_esiste_in_natura_il_suo_dna_creato_dal_computer-223059070/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T2), ma la scelta della redazione di non affidare questo tipo di articoli al personale più adatto.
Ma perché questo succede? Perché forse in fondo gli articoli scientifici non sono di grande importanza per un quotidiano, non attirano lettori dell’edizione cartacea o non generano molto traffico se pubblicati solo in digitale. Anzi, in quest’ultimo caso assistiamo spesso ad un’ulteriore degenerazione del fenomeno: il titolo ‘sparato’ per acchiappare più click possibili. Ecco allora che, guardando gli archivi dei giornali, scopriremmo, per esempio, che il cancro è stato già curato moltissime volte. Purtroppo poi il titolo viene assegnato al pezzo dal titolista, una figura diversa dal giornalista che lo ha scritto, per cui a volte, anche in presenza di un articolo decente o buono, ci troviamo di fronte a titoli che gridano vendetta. Il motivo per cui questo accade l’abbiamo già detto: assenza di conseguenze se il pezzo contiene errori. Anzi, a volte un articolo chiaramente sbagliato, che contiene delle castronerie, genera più traffico proprio perché viene costantemente linkato da chi vuol farle notare.
Dobbiamo quindi guardarci in faccia e chiederci, come comunità scientifica, come possiamo agire per fare in modo che la qualità di un articolo divulgativo diventi importante? Vorrei proporre qui un primo approccio al problema, cercando di creare un feed-back che possa premiare gli articoli ben scritti e i giornalisti competenti e segnalare invece quelli che non lo sono. Propongo quindi la creazione di un ‘Osservatorio della divulgazione’ che fornisca recensioni sulla qualità di un pezzo, del giornalista che lo ha scritto, e del titolista che lo ha titolato. Suggerisco anche che tale osservatorio possa diventare un compito istituzionale per gli studenti, magari quelli del Collegio Superiore, che potrebbero occuparsi di formare una piccola redazione, di monitorare gli articoli divulgativi sulla stampa, di farli leggere agli specialisti presenti in ateneo, come se fosse una peer-review, e di tenere traccia degli andamenti. Ogni anno, l’Osservatorio dovrebbe poi rilasciare un comunicato con i risultati delle osservazioni, elogiando i migliori giornalisti, le migliori riviste e giornali (magari istituendo un premio per il miglior giornalista divulgatore), e i loro contraltari. Le classifiche, di qualunque tipo, ricevono sempre una certa attenzione; in questo caso è la reputazione del singolo giornalista e delle testate ad essere giudicata. Inoltre, i risultati dovrebbero essere liberamente consultabili, in modo che chi si trovasse poi a dover rilasciare un’intervista ad uno specifico giornalista o ad una specifica testata, possa regolarsi di conseguenza.