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Siamo poi così sicuri che (fare) l’università non serve?

Briatore: “Niente università per mio figlio, non mi serve un laureato. Lo formerò io” «Falco sa che a 14 anni andrà in collegio in Svizzera a fare il liceo, non può mica restare a Montecarlo a vita.

Poi dopo il diploma verrà a lavorare con me»

Ognuno ha le proprie disgrazie nella vita. Per esempio, dover vivere a Montecarlo fino a 14 anni, poi doverti trasferire in Svizzera, per frequentare un prestigioso collegio, e poi doverti mettere sotto l’ala paterna a imparare il mestiere; il tutto da milionario, dal primo vagito all’esalazione dell’ultimo respiro.

Dov’è la disgrazia?! Il nostro Falco in tutto questo non decide nulla, non ha desideri, preferenze, gusti, voce: è quasi un altro dipendente di papà (“non mi serve un laureato”, dice il capo durante il colloquio di assunzione). Diverso sarebbe stato leggere “Mio figlio Falco non vuole fare l’università; lo porterò con me in azienda”. Pesanti questi professori, prendono tutto alla lettera e fanno la barba alle pulci; sì, è vero, è una parte del nostro mestiere.

Se Flavio Briatore fosse un mio studente, lo inviterei a riflettere su un paio di cose (ché questo è innanzitutto il nostro mestiere, invitare a riflettere, e non inculcare nozioni, come forse troppi credono). Innanzitutto, sul fatto che le sue parole hanno una possibile influenza su alcuni milioni di persone, fra cui molti giovani, e che quindi, ogni volta che apre bocca, ha una responsabilità grande. Nel mondo ci sono milioni di ragazzi per i quali frequentare l’università rappresenta un’opportunità straordinaria. Sì certo, adesso siamo circondati dal mantra dell’ascensore sociale che è bloccato, che devi espatriare per trovare fortuna perché qui non c’è futuro, che non serve laurearsi per andare a lavorare in un call center o a consegnare cibo in bicicletta, e avanti l’orchestra funebre dei ladri di speranza.

Studiare all’università è un’esperienza unica: il tempo dell’università è quello della gioventù al suo apice di energia, coi suoi sogni, le sue follie, le sue disperazioni, nel caleidoscopio, irripetibile, della vita di ciascuno. Briatore sarà un eccellente professore per suo figlio, e siamo contenti per lui. Peccato però avere un solo professore quando puoi conoscerne decine (che significa decine di vite, di esperienze, di bagagli, di caratteri). Fra loro non incontrerai mai un milionario, hanno passato troppo tempo con gli occhi e il naso su per aria, e insieme giù sui libri, per arricchirsi di denari. Ma potresti incontrare un soggetto particolare, qualcuno che è assolutamente dentro la realtà, anche se a tratti pare vivere fuori dal mondo. Qualcuno per descrivere il quale facciamo parlare Chesterton.

In questi tempi si è diffusa un’idea assai curiosa, e cioè che quando tutto va male serve un uomo pratico. In verità sarebbe molto più corretto dire: quando tutto va male, serve un uomo non pratico, serve un pensatore, un uomo che capisca perché le cose vanno o non vanno. Non è giusto suonare la cetra mentre Roma brucia, ma è giusto studiare idraulica mentre Roma brucia. Rerum conoscere causas. Se un aereo è leggermente avariato, potrà forse aggiustarlo un uomo semplicemente abile. Ma se l’avaria è seria, bisognerà invece andare a cercare un vecchio professore distratto e trascinarlo fuori del suo laboratorio perché ricerchi la natura del guasto. E quanto più complicato sia il guasto, tanto più canuto e distratto dovrà essere il professore; e in certi casi estremi potrà dirci realmente che cosa realmente succede soltanto l’uomo (probabilmente un matto) che inventò l’aereo!” (Gilbert K. Chesterton, Ciò che non va nel mondo, traduzione italiana di Was unrecht ist an der Welt, pubblicato a Monaco di Baviera nel 1924).

Siamo poi così sicuri che (fare) l’università non serve a niente?!

Lea Querzola, 10 aprile 2019

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