La “teoria del gender” non esiste, con buona grazia di chi oggi la osteggia e la bandisce da scuole e organizzazioni. Esistono invece le teorie e le metodologie degli studi di genere, delle donne, queer e femministe. Esiste l’impegno sociale e culturale degli studi di genere, area di studi che ha come obiettivo una rilettura del mondo attraverso l’ottica di chi ne è stato/a escluso/a, marginalizzato/a, o di chi non rientra nelle norme ‘accettate’ e ne sostiene i diritti. La violenza, l’odio in rete, l’esclusione, le nuove (antiche) solitudini hanno spesso una matrice di genere e ancora oggi le donne e soggetti transgender, gay e lesbiche ne sono le principali vittime.

L’inclusione, in questa prospettiva, riguarda anche uguaglianza ed equità, e comprende fattori interrelati quali, appunto, genere,‘etnia’, classe, orientamento sessuale, oggi rivisti alla luce dei più recenti fenomeni di globalizzazione e migrazione, e dei diritti LGBTQI+. Per parlare di genere occorre una prospettiva interdisciplinare. Così come politica ed economia non possono prescindere da questi aspetti fondativi, interconnessi. Ad esempio: il reddito di cittadinanza può e deve essere declinato in questa prospettiva? Tiene conto delle disuguaglianze tra donne e uomini? Di coloro che non hanno famiglia?
L’eterogeneità delle organizzazioni locali e globali, i movimenti sociali, pur nella loro diversità e a volte anche contrapposizione, i diversi tipi di femminismo e le comunità LGBTQI+ testimoniano che, al di là delle differenze, il nostro tempo (la nostra accademia e la società) ha bisogno di confrontarsi con chi richiede un urgente cambiamento, contro il ritorno di tutti i tipi di ‘inquisizione’ e il pensiero unico. Soprattutto dobbiamo ripensare il legame tra università e società, in una sinergia più forte e incisiva.
