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La sfera pubblica al tempo della pandemia

Strade e piazze pressoché deserte, parchi e giardini silenziosi, persino condomini normalmente rumorosi sembrano quasi disabitati, anche se mai come in questa occasione sono colmi di gente. Continue precauzioni, anche in famiglia e tra amici, che, interrompendo i comportamenti automatici quotidiani, ci obbligano a prestare attenzione al minimo gesto, e, soprattutto, a imparare a tenere le distanze.
Un’interruzione aggressiva e improvvisa dei legami di comunità, la costrizione all’isolamento e l’imposizione di una distanza dagli altri, i quali, senza averne l’intenzione, possono arrecarci danno con la loro semplice vicinanza.

Tale restrizione della libertà di movimento viene vissuta come una prova durissima che la comunità deve attraversare per poter tornare prima possibile a riempire i luoghi pubblici, a godere nuovamente della vicinanza, della prossimità con gli altri, non più vissuti come un potenziale pericolo.
Ma è davvero così?
Proviamo ad andare al di là dello schermo dei bollettini ufficiali, delle dichiarazioni dei governi, dell’alluvione di parole ed emotività nei social media, dello sfruttamento muscolare o sciovinistico dell’emergenza per rosicchiare qualche briciola di consenso in più nell’oggi (perché è questo presente assoluto, consumato e subito dimenticato, il tempo della nostra quotidianità).
Il filosofo Byung-Chul Han ha di recente sottolineato la mancanza di rispetto che domina la società odierna, in cui i social media sono l’arena in cui si formano e si legittimano i comportamenti pubblici (al punto che perfino la comunicazione e la lotta politica ne sono stati assorbiti). Egli mette in rilievo come non sia possibile parlare oggi di sfera pubblica, visto che la distanza viene a mancare, essendo proprio la distanza il presupposto del rispetto, del riguardo verso gli altri (che si tratti di una fila da fare o di una discussione da affrontare), della distinzione tra pubblico e privato, e anche dell’esercizio dell’intelligenza stessa. Il rispetto in quanto distanza sta a fondamento della vita pubblica. La sua assenza è tipica dello spettacolo, del sensazionalismo. La comunicazione digitale ci mette in grado di comunicare virtualmente con chiunque, ma, così facendo, abolisce le distanze e “la riduzione delle distanze spaziali si ricollega all’erosione delle distanze mentali.”

Questo è un tema antico nella nostra tradizione culturale. Nel dialogo platonico Protagora, si narra il mito di Prometeo ed Epimeteo, di quando gli esseri umani delle origini si trovarono a essere gli unici viventi deboli e privi di difese naturali contro i pericoli provenienti dall’ambiente, come gli animali selvaggi. Fatto sta che, anche quando Prometeo si arrischierà (pagandone duramente il prezzo) a rubare il fuoco e a donarlo all’umanità, da cui deriveranno il sapere tecnico e le città, i problemi non saranno finiti. Perché gli esseri umani non erano capaci di vivere nelle città insieme pacificamente, non possedendo l’arte di amministrare le città, la politica, e quindi Zeus, temendo l’estinzione della specie, invierà due altri doni, due altri saperi, la giustizia e, appunto, il rispetto. E, si badi, giustizia e rispetto sono dei saperi perché vanno interpretati con intelligenza, e non verranno distribuiti come altri saperi, per cui il sapere di un medico basta a prendersi cura di più persone. Giustizia e rispetto, secondo Zeus, vanno distribuiti a tutti, nessuno escluso, perché nessuna città può esistere se solo una piccola parte degli abitanti conosce e pratica giustizia e rispetto.
Anche se oggi, rispetto al mito del Protagora, noi siamo dotati dell’arte politica, è però anch’essa presa nel gioco della società (in apparenza) trasparente dominata dai social media: una comunità solo immaginata, che manca dei due saperi fondamentali di ogni vera comunità umana, giustizia e rispetto. È una comunità immaginata in cui un epidemiologo britannico, per far comprendere al pubblico quale fosse il miglior approccio, ha dovuto consigliare: “non agite come se non voleste farvi contagiare, fate come se l’aveste già preso e non voleste passarlo agli altri”. Solo in una comunità immaginata in cui il rispetto è abolito diventa necessario spiegarne l’importanza.

In questa situazione siamo tutti esuli, rifugiati, che rifuggono dal contagio isolandosi, ma che in isolamento hanno il tempo e il luogo per prendere coscienza della natura di quella “normalità” a cui si vorrebbe ritornare il prima possibile.
La normalità di una comunità immaginata in cui per la sicurezza (a dire il vero piuttosto precaria) dell’oggi si sacrifica il futuro, un futuro che non può esistere senza una visione che unisca e dia calore. I gesti di solidarietà e rispetto in questi tempi di pandemia mostrano come il vero isolamento, la vera mancanza di comunità sia cresciuta da tempo innanzitutto nelle nostre menti, in quella comunità immaginata dove vorremmo presto tornare, fatta di tempo consumato frettolosamente e di ossessione per l’efficienza e la competizione, per mascherare una drammatica carenza di idee degne di questo nome.
Siamo davvero così ansiosi di tornarci, o, come pensa una mia cara amica, potremmo trovare il modo di farlo senza perdere di vista quanto stiamo imparando in questi giorni? Magari riportando nel cuore del quotidiano il senso di comunità che unisce nel rispetto reciproco?
Sorge il fondato sospetto che la fretta di tornare alla “normalità” sia dettata, oltre che dal ragionevole desiderio di superare una grave emergenza, anche dalla scomodità di una condizione che ci costringe a guardarci allo specchio, per scoprire che non ci piacciamo poi così tanto.

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