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La prevenzione del rischio: ragione o sentimento?

Busto di donna, Picasso Prevenzione del rischio

La sfida fondamentale alla teoria economica della prevenzione del rischio fu posta molti anni fa – con sagacia lungimirante – da un influente ambientalista americano, Paul Portney. Supponete di dover decidere se investire o meno risorse pubbliche per un impianto di depurazione dell’acqua cittadina, tenendo presente che la popolazione attribuisce ad alcuni elementi naturali presenti nell’acqua il recente incremento del tasso di tumori, mentre i più autorevoli scienziati affermano con convinzione che gli elementi rilevati nell’acqua non sono pericolosi per la salute. Nonostante le rassicurazioni, l’opinione pubblica si mostra irremovibile. Che fate? Spendete i soldi pubblici per un impianto di depurazione che – ad avviso dei massimi esperti – è completamente inutile?

È bene sottolineare come il problema posto da Portney non sia un semplice esercizio accademico. Si sa che la popolazione tende ad avere una percezione “distorta” dei rischi più comuni. La tabella a fianco, prodotta da un’esperta di comunicazione, mostra lo scarto tra entità del rischio percepito (in alto) e rischio statistico (in basso) per alcuni fattori comuni di mortalità. Ai rischi legati al terrorismo e ai disastri aerei, ad esempio, tendono a essere assegnati tassi di pericolosità molto elevati (sfera posta al di sopra della riga), pur avendo un’incidenza statistica ridottissima (sfera sotto la riga).

Risk perception and sctual hazards. Grafico sulla prevenzione del rischio

Sul dilemma di Portney, da più di trenta anni, si dividono gli economisti. Da una parte troviamo la teoria tradizionale, che crede fermamente nella necessità di basare le scelte pubbliche su dati empirici affidabili – sui “fatti”, direbbero i colleghi americani. Assecondare le pulsioni irrazionali della popolazione, inseguendo fantasmi inconsistenti, sarebbe profondamente immorale in quanto sottrarrebbe alla collettività risorse utili per salvare vite umane (si parla a proposito di statistical murder). Il problema slitta allora sul fronte della persuasione: come fare a convincere la popolazione a sostenere la scelta corretta, quella basata sull’analisi empirica condotta con metodi rigorosi? La risposta più immediata è quella di confidare nella intrinseca razionalità degli individui, investendo sulla alfabetizzazione scientifica della popolazione e mettendo in campo una campagna di informazione capillare. Laddove questa strategia si mostri inefficace, a causa degli inevitabili limiti cognitivi dell’essere umano, occorre fare affidamento, compatibilmente con i canoni della democrazia rappresentativa, su procedure decisionali tecnocratiche gestite da esperti, idealmente non soggetti alle pressioni contingenti della politica. Bisognerà quindi delegare le decisioni ad Authority indipendenti, con obiettivi e budget propri, che facciano ampio uso dell’analisi costi benefici. Si noti come gran parte delle misure di sicurezza del nostro ordinamento derivino proprio da tale impostazione “paternalista”, che le rende obbligatorie perché la popolazione non sarebbe incline ad adottarle autonomamente (ad esempio, la cintura per l’auto o il casco per il motorino). Una volta che il potere decisionale sia passato ai tecnici, ovviamente, saranno determinanti le statistiche oggettive e le tabelle di mortalità, non certo la percezione impressionistica dell’opinione pubblica. La risposta al quesito di Portney, secondo questa impostazione, è quindi di non investire sul depuratore.

Sul lato opposto si sono schierati economisti e scienziati sociali più inclini a riconoscere che il concetto di rischio è un costrutto sociale, mediato da categorie culturali e soggetto a un’interpretazione fortemente influenzata da fattori emotivi. I sostenitori di tale approccio attingono a piene mani dagli studi di antropologia e di psicologia sociale (a partire da quelli di Douglas e Wildavsky), concentrando la loro attenzione sugli elementi che incidono sul senso di pericolo e sulla minaccia alla propria sopravvivenza. George Loewenstein, tra i più noti autori in questo filone di ricerca, parla esplicitamente di “rischio come sentimento” (risk as feelings).

La ricerca sul tema, pressoché sterminata, ha individuato alcuni elementi che sembrano giocare un ruolo determinante sul modo in cui il rischio viene percepito. Questi elementi includono la familiarità con il rischio (averne sentito parlare o aver letto articoli di giornale sull’argomento: ciò di cui non si ha contezza viene sottovalutato), il valore sociale dell’attività che causa il rischio (il rischio associato ad attività giudicate positivamente viene sottovalutato), la natura catastrofica con cui si manifesta il rischio (il fatto che il rischio si traduca o meno nella morte simultanea di un gran numero di persone), l’eventuale assunzione volontaria del rischio (ad esempio, nel caso dei fumatori), la sensazione di poter controllare il rischio (tipicamente per gli incidenti automobilistici, largamente sottovalutati), l’orrore (se il rischio è associato a eventi dolorosi e spaventosi come un incidente aereo), l’equità (se il rischio si concentra  solamente su certe categorie di persone o se è diffuso), il coinvolgimento in prima persona (che implica una sopravvalutazione del rischio), l’origine naturale o artificiale del rischio (le fatalità causate da Madre Natura sono generalmente sottovalutate), l’individuazione delle vittime (se queste hanno un volto e una storia o se sono ridotte a un mero dato statistico), l’incertezza (la presenza o meno di quantificazioni divergenti).

Gli autori che enfatizzano l’aspetto della percezione del rischio ritengono generalmente che la politica di prevenzione, oltre a prevedere una corretta informazione, debba dare “sicurezza” ai cittadini e debba quindi mitigare i rischi che generano preoccupazione, veri o immaginari che siano. Capita che i bambini di notte abbiano paura dei mostri: è vero che i mostri non esistono, ma la paura è reale e bisogna prenderne atto. Nell’ambito del discorso pubblico, peraltro, sull’esistenza o meno dei “mostri” si potrebbero nutrire dubbi. È stato infatti sottolineato come i “rischi oggettivi” siano il risultato di analisi statistiche che richiedono comunque un modello e un’interpretazione (come non pensare ai primi giorni dell’epidemia in cui la Protezione civile emanava bollettini quotidiani fornendo dati difficilmente interpretabili?). La pluralità delle interpretazioni dei dati, determinata da fattori identitari ed emotivi (cultural worldview), non sarebbe da imputare all’incapacità di seguire un metodo scientifico rigoroso. Al contrario, per i fattori di rischio più controversi (come il controllo delle armi negli USA o il cambiamento climatico), sembra che il livello di polarizzazione delle interpretazioni aumenti laddove sono più elevate le capacità analitiche (numerarcy) dei soggetti (vedi D. Kahan, On the sources of ordinary science knowlege and extraordinary science ignorance, 2017). 

Secondo i sostenitori di tale approccio, la variabilità nella percezione del rischio sarebbe una manifestazione della pluralità di rappresentazioni alternative del mondo e dunque il tentativo di ricondurre le scelte collettive a criteri “oggettivi e razionali” (l’analisi costi benefici) entrerebbe in conflitto con i principi della democrazia liberale. Vana sarebbe, quindi, la pretesa dell’economia tradizionale di confinare il pluralismo alla sfera dei valori, tenendo questi ultimi distinti dai “fatti” (la quantificazione empirica).

Che impatto ha avuto il dilemma di Portney – spinoso e ineludibile – sulla teoria economica? Essendo da sempre interessata alla descrizione dei fenomeni, l’economia ha affinato lo studio del comportamento in condizione di rischio con elaborati studi sul campo e con simulazioni in laboratorio. Si è proceduto quindi a una “mappatura” dettagliata, e tuttora in corso di approfondimento, delle modalità in cui ambiente e contesto influiscono su percezioni e comportamenti. Ne esce un’immagine frantumata del soggetto umano, che segue pattern e stili di scelta altamente dipendenti dal contesto e poco coerenti con il modello monolitico dell’homo oeconomicus. Tale approfondimento certosino della dimensione comportamentale delle scelte economiche ha potenziato la capacità predittiva della teoria, ma al prezzo di ridurne drasticamente la valenza normativa. Sapere che un rischio è percepito in modo amplificato se è associato a una immagine drammatica o se viene descritto a LETTERE MAIUSCOLE non ci dice molto rispetto alla politica di prevenzione ottimale. Ci aiuta moltissimo, ovviamente, a comunicare in modo efficace la rilevanza dei pericoli o a farci superare le difficoltà pratiche nell’applicazione delle norme (disegnando norme user friendly). Abbandonato il mito dell’homo oeconomicus infallibile e razionale, la teoria economica si sta trasformando dunque in una collezione di risultati empirici poco omogenei e difficilmente generalizzabili, inadeguati a sostenere orientamenti di policy forti e condivisi. Ma forse è meglio così: una sana dose di realismo può risultare salutare anche per quella che, tra le scienze sociali, è sempre stata la più presuntuosa.

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