Articolo del blog

Diario di un medico (quasi) in trincea

Condivido la mia esperienza di medico al tempo del Covid-19, dal mio osservatorio di Forlì che percepisce direttamente solo una piccolissima parte della vicenda (almeno per ora).

La prima impressione è che, nonostante le prove generali della SARS che ci avrebbe, con senno di poi, dovuto insegnare qualcosa, le organizzazioni sanitarie di tutto il mondo siano state colte impreparate dalla velocità della epidemiapandemia.

Una contagiosità forse mai vista prima associata alla eccezionale infettività dei soggetti senza sintomi sempre in movimento forsennato nel villaggio globale hanno fatto il resto.

Come nel medioevo ai tempi delle pestilenze ritorna l’arcaico ma efficace provvedimento dell’isolamento. I governi centrali e regionali hanno prudentemente introdotto regole restrittive con giri di vite progressivi e graduali, ma forse la gravità della situazione non è stata percepita pienamente da fasce ampie della popolazione, che hanno continuato a muoversi con gli effetti che conosciamo.

Molti di noi operatori sanitari hanno allora sublimato la frustrazione intervenendo con appelli di ogni tipo sui media e sui social, spesso non compresi, talvolta contrastati. Tutti noi speriamo servano in concreto, anche se al momento l’effetto non sembra chiaro.

E’ molto triste vedere che dove non arriva il senso civico debba sempre di più intervenire la forza pubblica. Il sistema sanitario si sta rimodulando nelle prestazioni a seconda della gravità del profilo locale. Se per il territorio il compito principale è quello di prevenire e poi circoscrivere i contagi, per gli ospedali si tratta di garantire un numero adeguato di posti in rianimazione (e in Italia sono relativamente pochi) per i più gravi, in malattie infettive e in pneumologia per quelli intermedi, e mandare a casa, in sicurezza, i più lievi.

Tutti passano attraverso il filtro dei medici di medicina generale e dei presidi di pronto soccorso. Si stanno moltiplicando i reparti di ogni tipo riconvertiti in cosiddetti reparti Covid, cioè dedicati esclusivamente a pazienti infetti. Si stanno riconvertendo interi ospedali che perdono la loro suddivisione in reparti specialistici e si trasformano in grandi contenitori solo per Covid.

Io vivo ed opero in una area relativamente meno colpita, tra Forlì e Cesena, all’interno dell’AUSL Romagna, duramente interessata invece nel riminese. Oggi è stata annunciata in maniera ufficiale la conversione dell’Ospedale di Lugo in Covid-19 Hospital. Si attivano ospedali da campo militari e si pensa di riconvertire alberghi, tensostrutture sportive e intere strutture fieristiche.

Questo forse comincia a dare una reale misura degli eventi.  

Da non trascurare il tema della protezione del personale sanitario. Quanti assistono pazienti incrementano il rischio di ammalarsi e quindi di dovere forzatamente uscire dalla filiera assistenziale. Se le fila si assottigliano minore sarà la risposta sanitaria. Dispositivi di protezione individuale, comportamenti corretti durante i contatti, filtri o triage come si dice, anche telefonici per selezionare i pazienti sono diventati o dovrebbero divenire routine. Per tutte le patologie e in tutti i contesti.

Gli amici e colleghi negli USA (Orlando, Filadelfia,etc.) mi chiedono continuamente cosa stiamo facendo per proteggere i nostri sanitari.  Ben venga l’immissione di nuovi medici e infermieri che le Università stanno entrando nel sistema con straordinaria efficienza e celerità grazie alla possibilità di formazione online attivata da tutte le Università in questa fase di emergenza. Fin da ora sono preziosi e lo saranno di più in un futuro prossimo. Si formeranno sul campo anche se inizialmente del tutto inesperti.  

La stessa informatizzazione che ha consentito questo miracolo didattico potrebbe (dovrebbe) essere  impiegata su più ampia scala per monitorare il movimento di tutti i cittadini, per focalizzare i contagiati e tracciare e circoscrivere i clusters di infezione, per recare conforto ed assistenza ai malati meno gravi che vivono la loro malattia con paura a casa in totale isolamento. Questo è un appello alle competenze straordinarie presenti nelle eccellenti Università italiane.

Tutto buio? No. Ci sono luci in fondo al tunnel. Anche se impercettibilmente si inizia ad avere l’impressione che la progressione non sia più del tutto logaritmica: per ora accontentiamoci. Quando scrivo abbiamo per la prima volta registrato 12 ore in cui i dimessi o guariti hanno superato gli ingressi. Forse l’incubazione è più vicina ai 7 che ai 14 giorni: meno asintomatici in giro. Il tocilizumab sembra funzionare, ed è ora in sperimentazione ancorché iniziale.

Dobbiamo fare presto.

Sarebbe un vero miracolo potere confidare su di un farmaco salvavita. Poco ci interessa se sia una idea italiana, come sembra, o una ispirazione cinese. Ci interessa che funzioni.

E’ stata preannunciata la possibilità di impiegare una sola pompa di ventilazione (non si possono moltiplicare all’infinito) su 2 o addirittura 4 pazienti. Una tracheotomia precoce sembrerebbe accorciare il decorso della malattia, forse la prognosi. Darebbe una possibilità in più ai pazienti con polmonite grave. Comunque sia noi medici dobbiamo imparare la lezione per il futuro, essere pronti ad analoghi eventi che si possano ripresentare.

Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo (The Butterfly Effect) https://it.wikipedia.org/wiki/Effetto_farfalla.

Questa metafora è ora tragicamente diventata di gran moda. Per noi dovrebbe significare in futuro una task force internazionale di pronto intervento capace di muoversi immediatamente per spegnere un focolaio circoscritto ovunque insorto prima che si diffonda un incendio planetario. Se il virus non ha confini allora dobbiamo aprire ancora prima le frontiere alla conoscenza medica per contrastarlo. Questo è un tema politico oltre che culturale. E qui la sfera del medico si arresta .

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