Articolo del blog

In ricordo di Vittorio Capecchi

(Pistoia, 28 novembre 1938 – Bologna, 29 luglio 2023)

Nei due mesi trascorsi dalla morte di Vittorio Capecchi, mio marito, di cui il 29 luglio dava notizia il sito di ateneo, sono apparse varie rievocazioni della sua figura e della sua opera; lo si è inoltre ricordato, con un intervento di Franca Bimbi, al convegno di Sociologia della vita quotidiana svoltosi a Messina l’8-9 settembre, e negli stessi giorni in un dibattito alla Festa dell’Unità di Bologna, dedicato al suo cinquantennale impegno sul versante della disabilità (per una rassegna di queste iniziative, si veda www.inchiestaonline.it ).

Prendo a mia volta la parola, come sua compagna di vita e di letture negli ultimi tredici anni, per tentare non certo di descrivere la globalità della sua esperienza intellettuale, o la rilevanza dei suoi contributi teorici (potranno farlo, e spero lo faranno, gli autorevoli interlocutori che lo hanno ben più a lungo di me affiancato nei suoi percorsi di ricerca), ma per offrire, dal mio punto di vista inevitabilmente parziale e circoscritto, qualche ulteriore tassello forse utile a ricostruirne il profilo.

Un riferimento in questo senso importante è l’articolo “Mezzo secolo di due riviste: Quality and

Quantity e Inchiesta”, apparso sull’ultimo numero di Inchiesta cartacea (ottobre-dicembre 2020, visibile anche sulla versione online) in cui Vittorio traccia la propria autobiografia attraverso la vicenda delle due riviste da lui fondate, e dirette per cinquant’anni: la prima, in inglese, si proponeva di diffondere in Europa i modelli matematici applicati alle scienze sociali (oggi è più che mai fiorente, e diffusa soprattutto in Asia), la seconda si configura programmaticamente come “trimestrale di ricerca e di pratica sociale” che si propone di legare conoscenza e prassi trasformatrice, e sin dall’inizio assume a riferimento privilegiato la Federazione Lavoratori Metalmeccanici. E’ dunque una rivista militante, che annovera fra i suoi numeri più notevoli degli anni Settanta quello dedicato alle 150 ore, e che, per impulso di Adele Pesce, compagna di Vittorio per oltre trent’anni, si è aperta  al femminismo, avvalendosi fra l’altro della collaborazione di Luce Irigaray.

Ma la rivista è stata attiva promotrice di riflessioni e dibattiti anche su molti altri temi (un esempio per tutti: il memorabile convegno promosso a Bologna negli anni Ottanta che ebbe per protagonista Fernand Braudel). E’ stata una “fabbrica di cultura”, uno spazio aperto, pluralistico, interdisciplinare, di libero confronto, in cui molti si sono incontrati, fra i quali Giovanni Mottura, Enrico Pugliese, Umberto Romagnoli, Renato Rozzi, Paolo Prodi, Giovanni Jervis, Franco Novara, Bruno Giorgini, Dino Buzzetti, Mario Miegge, Paolo Ceccarelli, Laura Balbo, Laura Corradi, Mario Agostinelli, Gianni Sofri, Giangiorgio Pasqualotto, Augusto Shantena Sabbadini, Antonio Olmi, Nicola Gasbarro…. Fra tanti amici, voglio ricordare in particolare Pier Cesare Bori, che ci ha fatti incontrare, e Paolo Massimo Buscema, che Vittorio ha intervistato sull’intelligenza artificiale nel libro L’arte della previsione (2020).  

Fin dall’inizio, il percorso di Vittorio ha avuto una dimensione internazionale: la Columbia University di Paul Lazarsfeld (e della marcia per la pace in Vietnam del 1967 con Martin Luther King), la Cina  visitata nei primi anni Settanta (e la cui presenza su Inchiesta è considerevolmente aumentata negli anni recenti, con il cospicuo apporto di sinologi quali Maurizio Scarpari), il Vietnam, l’Irlanda, il Brasile, la prediletta Parigi, il Giappone a cui lo aveva introdotto Ronald Dore, e dal quale gli era arrivato lo scorso anno un prestigioso riconoscimento dei suoi meriti interculturali, il conferimento dell’Ordine del Sol Levante.

A questa apertura di orizzonti, a questa sempre viva curiosità per mondi diversi si accompagnava una strenua fedeltà ad alcuni temi fondamentali. Non credo sia un caso che il suo penultimo scritto sia un dialogo su Don Milani con Riccardo Cesari (che a Vittorio ha poi dedicato un commosso ricordo), così come su Don Milani quasi sessant’anni fa era stato uno dei suoi primi saggi, visibile anche su Inchiestaonline, apparso sulla rivista Il Mulino che l’ha ora ripubblicato. C’era un saldo nucleo di valori fondamentali a cui faceva riferimento, compendiati in un recente articolo apparso su I martedì del Centro San Domenico (V. Capecchi, A. Crisma, “Diritti, quale futuro?”, 1, 45, 354/2022). L’uguaglianza per lui non era un’ideologia, ma innanzitutto e soprattutto un’etica, appresa dai suoi maestri della Bocconi, come Francesco Brambilla, che erano stati nella Resistenza, che gli avevano insegnato a coltivare l’amore per la matematica, e che gli leggevano Keynes.

C’era in lui un robusto impianto razionale, fra i cui riferimenti privilegiati svettavano Marx, Weber, Freud (e a Freud l’aveva iniziato Cesare Musatti, incontrato in quella straordinaria fucina intellettuale che è stata la Olivetti di Ivrea); accanto a questo, e con questo non in contraddizione, c’era una forte istanza spirituale, una sensibilità profonda per il mistero al cuore delle cose. Fra i suoi ultimi appunti, ho trovato una pagina del Wenzi, testo taoista che parla il linguaggio paradossale del Laozi, il cui titolo nella traduzione di Jean Levi è reso come l’obscure clarté. A questa duplice prospettiva si riconduce anche il suo grande interesse per lo Yijing, il Classico dei mutamenti, a cui Vittorio ha dedicato una decennale ricerca confluita in un volume rimasto incompiuto, e in parte riflessa nella prefazione, che abbiamo scritto insieme, al libro di Matteo Sgorbati L’I Ching a Eranos. Wilhelm, Jung e la ricezione del Classico dei mutamenti (Napoli 2021).

Vittorio rappresentava questa duplice propensione che lo accomunava all’amico Pier Cesare Bori, e per certi versi anche a un altro importante interlocutore incontrato in anni più recenti, Amos Luzzatto, facendo riferimento all’immagine del cristallo e della fiamma delle Lezioni americane di Calvino, o alla Discesa nel Maelström del suo prediletto Edgar Allan Poe.

Nei suoi ultimi giorni, segnati da una crescente stanchezza e rattristati dalla perdita di tanti cari amici, come rivela il suo ultimo scritto su Inchiesta in ricordo di Flavia Franzoni, Vittorio riusciva tuttavia ancora a fare nuovi incontri, nuove scoperte, nuovi progetti, ad aprire nuovi spazi relazionali, ad affascinare giovani interlocutori con la sua impareggiabile arte di raccontare. Come se il suo tenace amore per la vita ancora non lo abbandonasse, come se la speranza, bambina irriducibile di cui parla una poesia a lui cara di Charles Péguy, ancora lo tenesse per mano.

Amina Crisma

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