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A proposito del mix vaccinale nel contrasto al Covid-19: “du gust is megl’ che uan”?

Quando la posta in gioco è la sopravvivenza del metodo scientifico

Nei giorni scorsi sono stato coinvolto – mio malgrado – in una vicenda a dir poco paradossale, accaduta nell’ambito della campagna vaccinale che sta interessando tutta la popolazione italiana. In virtù di una circolare del Ministero della Salute, tra domenica 13 e venerdì 18 giugno è stato istituito l’obbligo di vaccinazione cosiddetta eterologa per tutti coloro i quali avessero già ricevuto una prima dose del vaccino AstraZeneca (ora Vaxzevria) e avessero un’età inferiore ai 60 anni. Potenzialmente un milione di persone.

Non mi soffermo sulle considerazioni di natura clinica ed epidemiologica che hanno indotto il Comitato Tecnico Scientifico (CTS) del Ministero a consigliare la sospensione immediata della vaccinazione con AstraZeneca per tutti gli under 60. Metto in evidenza soltanto che questa raccomandazione si è trasformata sorprendentemente anche in un divieto di somministrazione della seconda dose per chi avesse già ricevuto la prima. E’ noto nella comunità scientifica che i già rari eventi avversi emersi durante la campagna vaccinale di massa con la prima dose di AstraZeneca divengono ancora più rari (più o meno si riducono ad un decimo dei precedenti) dopo la somministrazione della seconda dose. Anche per questo motivo la European Medicines Agency (EMA) ha ribadito più volte, anche nei giorni scorsi, che AstraZeneca rimane un vaccino sicuro e autorizzato per la somministrazione in tutte le fasce di età.

La questione dell’obbligo di vaccinazione con mix di due vaccini diversi si è risolta dopo l’intervento del Presidente del Consiglio e la successiva emanazione di una nuova circolare del Ministero della Salute avvenuta sabato 19 giugno. Nonostante la forte raccomandazione a proseguire la vaccinazione con un vaccino a mRNA (Pfizer o Moderna), chi ha meno di 60 anni ed ha ricevuto una prima dose di AstraZeneca può chiedere di effettuare il bis previa autorizzazione medica. E’ quello che ho deciso di fare anche io, dopo avere posticipato la data del richiamo vaccinale per evitare di dovermi sottoporre al mix. Resto convinto che firmando il consenso informato al momento della prima vaccinazione ciascuno di noi abbia sottoscritto un documento che ha lo stesso valore legale di un contratto. Obbligare qualcuno a cambiare il tipo di vaccino per la seconda dose si potrebbe configurare come una violazione di un diritto di derivazione costituzionale (in base a quanto previsto dall’art. 32 sulla libertà di cura).

Tutto è bene quel che finisce bene? Non esattamente. A questo punto desidero allargare la riflessione sul significato più profondo che ha l’indicazione (non più l’obbligo) di procedere al mix vaccinale per chi ha meno di 60 anni. Gli studi segnalati dal CTS a sostegno della vaccinazione eterologa non sono purtroppo statisticamente robusti. Le due principali ricerche indicate hanno preso in considerazione appena rispettivamente 663 e 830 casi statistici (nella seconda, peraltro, solo persone di età superiore ai 50 anni):

Mix-and-match COVID vaccines trigger potent immune response

Heterologous prime-boost COVID-19 vaccination: initial reactogenicity data

In buona sostanza si tratta dei risultati preliminari di trial clinici tuttora in corso, in fase ancora precoce (al massimo giunti in fase 2), che stanno indagando sulla sicurezza e sull’efficacia della vaccinazione eterologa. I dati ad interim messi a disposizione della comunità scientifica dalle due ricerche riguardano campioni di dimensione assolutamente insufficiente per poter trarre conclusioni solide, men che meno definitive. Gli stessi autori invitano ad interpretare i risultati con cautela. Ad esempio, la seconda ricerca ha segnalato che il mix vaccinale presenterebbe un profilo di reattogenicità con maggiore frequenza di effetti collaterali (sia locali sia sistemici), anche se non severi. Inoltre, sempre dal CTS, sono stati citati anche alcuni studi osservazionali basati su alcune decine di volontari. Vale la pena ribadire che un campione di comodo, a prescindere dal numero dei casi, ha sempre rappresentatività statistica pari a zero.

Il tema è rilevante. In presenza di dati incompleti di fase 2 su uno specifico vaccino, per quanto promettenti, quest’ultimo non sarebbe mai in grado di ricevere un’autorizzazione alla commercializzazione, neppure con procedura di emergenza, da parte delle autorità regolatorie internazionali e nazionali. Questo significa che, di conseguenza, sarebbe impensabile poter procedere ad avviare – senza neppure attendere i dati definitivi di fase 3 – una vaccinazione su larga scala con quel vaccino e con un protocollo in fase iniziale di sperimentazione. Il recentissimo caso del vaccino CureVac dovrebbe essere sufficiente a comprendere la portata del problema. Infatti il vaccino prodotto dall’azienda farmaceutica tedesca aveva evidenziato dati interessanti in fase 2, ma poi – in base ai risultati preliminari di un trial clinico di fase 3 effettuato su circa 40.000 persone in diversi paesi europei e sudamericani – ha dimostrato un’efficacia pari solamente al 47% nei confronti della protezione da malattia severa a seguito di infezione da Covid-19. Come conseguenza di questo basso livello di efficacia, il vaccino CureVac non potrà essere autorizzato da EMA per la commercializzazione all’interno dell’Unione europea.

Nel caso del mix vaccinale ipotizzato dal Governo italiano si propone però l’uso congiunto di vaccini che sono già stati autorizzati singolarmente alla distribuzione su larga scala in doppia dose sia da EMA sia dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). Secondo gli esperti, dal punto di vista immunologico e biologico – e anche in virtù di alcuni precedenti storici sul ricorso al mix vaccinale in altri contesti, come ad esempio quello della lotta contro il morbo HIV – non abbiamo nessun dato che ci possa mettere in allarme a fronte dell’adozione di questa soluzione. Però non si è ancora accertato scientificamente se vi sia qualche controindicazione immediata rispetto alla vaccinazione eterogenea, anche se il razionale sottostante parrebbe propendere decisamente per l’esclusione di questa ipotesi. Le poche evidenze scientifiche disponibili, come già sottolineato, sono ancora ad uno stadio preliminare. Non si è neppure certi del fatto che il mix produca davvero un rafforzamento dell’immunità, che dovrebbe essere controllata con l’esame sia di quella legata ai linfociti C (risposta cellulo-mediata) sia di quella sierologica (risposta anticorpale). Invece gli studi citati dal CTS valutano la sicurezza del mix solo sulla base degli effetti collaterali frequenti e a breve termine, mentre ne misurano l’efficacia solo rispetto alla seconda tipologia di risposta immunitaria. Dunque sarebbe molto più coerente e onesto dal punto di vista intellettuale ammettere che – ad oggi – non esistono prove certe di efficacia della vaccinazione eterologa rispetto a sviluppo di malattia da Covid-19 severa, ospedalizzazione e decesso, né rispetto ad eventuali effetti collaterali rari. Lo potremo sapere solo con il tempo, quando gli studi in corso saranno giunti al termine e tutti i dati saranno stati messi a disposizione della comunità scientifica e delle autorità regolatorie.

A conclusione di questa riflessione non mi resta che ribadire che – dal punto di vista scientifico – le decisioni devono essere prese solo sulla base di elementi e di dati estremamente precisi e validati. La scienza è indipendenza, anche dal potere politico. Non sarebbe più possibile un domani difendere il ruolo del percorso regolatorio dei dati e dell’evidenza scientifica se CTS, Ministero della Salute e AIFA finissero essi stessi per negarne l’importanza, in nome dell’emotività e dell’accondiscendenza più o meno dissimulata verso le esigenze della politica. Servono quindi studi condotti su decine di migliaia di individui, in cieco, nei quali gli effetti di una doppia dose di AstraZeneca vengano paragonati, in un trial randomizzato e quantomeno distintamente per ciascun sesso e fascia di età, a quelli di due dosi eterologhe. Le reazioni avverse dei vaccini a base di adenovirus come AstraZeneca si stanno rivelando localizzate in fasce ben definite: soprattutto donne, giovani, in età fertile. Più si amplierà la base campionaria delle ricerche, più potrebbero evidenziarsi eventi avversi. Per stabilire se un vaccino o un protocollo di somministrazione siano realmente efficaci e innocui, l’unica cosa che farà davvero la differenza saranno i dati statistici osservati nel corso dei trial clinici coinvolgendo migliaia e migliaia di persone. Perfino nella messa a punto di farmaci destinati alla cura di malattie rare non si prendono in considerazione sperimentazioni con meno di 4.000 pazienti. Sono convinto che sia particolarmente importante evitare di cambiare in corso d’opera la fonte della decisione e della legittimità scientifica, scegliendo la scorciatoia di avviare sperimentazioni in presa diretta, senza rete di protezione, in luogo di quelle controllate, pianificate secondo rigorosi parametri statistici e scientifici. Non possiamo permetterci di rinunciare proprio ora al pieno rispetto del canone galileiano, dove le “sensate esperienze” si associano alle “dimostrazioni necessarie”.

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