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Credenze, rappresentazioni, senso comune

Se pensiamo che gli uomini hanno bisogno di dare alla loro esistenza “ordine, direzione, stabilità”, possiamo iniziare a mettere a fuoco la dimensione dell’incertezza, le forme che tale dimensione assume nella vita quotidiana, i nessi con tratti più ampi del contesto sociale, politico, storico, economico, culturale. L’idea dell’incertezza come chiave di lettura delle abilità che i soggetti dentro concreti contesti attivano per mettere ordine nella loro vita non è nuova per gli antropologi, che spesso si collocano dentro quotidianità pervase da senso di vulnerabilità, da ansia, da altalene di speranza (attesa) e delusione; tali condizioni umane a volte spingono all’arte del “navigare a vista”, all’improvvisazione, all’ “arte di arrangiarsi” come modalità di tenere insieme faticosamente una vita – la propria – ma anche quella delle persone vicine. Il paradigma dell’incertezza porta un articolato insieme di concetti ai quali ricondurre azioni, reazioni, logiche, comportamenti: insicurezza; indeterminatezza; rischio; ambiguità; ambivalenza; opacità; oscurità (brancolo nel buio); invisibilità; mistero; dubbio; scetticismo; occasione; possibilità; speranza; ipotesi.

Come appare evidente, la dimensione dell’incertezza è parte dell’esperienza umana, quali che siano i modi storici in cui questa si realizza; altrettanto ovvia è la considerazione della variabilità che la caratterizza, nel tempo e nello spazio; meno ovvio è invece il riconoscimento del carattere culturale dell’incertezza e del modo in cui la rappresentiamo, la sperimentiamo, la percepiamo.

L’incertezza non è un già dato dell’esperienza umana: è un prodotto sociale e culturale; dipende, ed emerge quindi, dalle relazioni sociali, dalle configurazioni culturali, che in certi casi creano incertezza. Parallelamente, relazioni sociali e configurazioni culturali possono anche ridurre l’incertezza, anzi, proprio questo è il loro effetto primario. L’incertezza, l’imprevedibilità, scaturiscono dal presente, e si proiettano nel futuro; informano di se stesse l’esperienza del tempo, gli orizzonti e la capacità progettuale: il fare programmi, il coltivare aspirazioni, lo sperare che qualcosa si realizzi o non si realizzi, l’augurarsi buona fortuna emergono allora come risorse culturali, che possono essere incrementate o schiacciate dalle condizioni sociali.

L’incertezza domina la vita degli abitanti dei “mondi magici”, di cui molti antropologi hanno fornito esemplari narrazioni; per esempio, Ernesto De Martino, a proposito del sud d’Italia; per esempio, Claude Lévi-Strauss, a proposito degli indigeni brasiliani, e così molti altri.

È ovvio che l’incertezza regna sovrana nei periodi di guerra, allorché “si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”; nei periodi di trasformazione, quando un certo ordine del mondo viene meno senza che sia pronto un nuovo assetto, nei periodi di crisi. Di per sé macroprocessi sociali come i conflitti, le trasformazioni sociali, ma anche la depressione economica, l’instabilità dei mercati, la perdita del lavoro provocano un’incertezza, che si manifesta a caduta nella quotidianità delle persone. Di per sé, ancora, macroprocessi culturali come la disgregazione di valori collettivi, il frantumarsi di comuni orizzonti progettuali e identitari, l’erosione delle reti della solidarietà, alimentano l’incertezza, concorrono a creare contesti in cui la crisi è la normalità.

Nella società contemporanea, in molti dei suoi luoghi, nonostante la patina di invulnerabilità con cui tale società sembra rivestire chi la abita, l’incertezza affiora a volte come dominus incontrastato, come una forza imperscrutabile e inevitabile, che segna pesantemente l’esperienza. È in questi casi che il paradigma dell’incertezza si fa contesto, inizia a far presa, a modellare modi di pensare e di essere nel mondo.

L’attuale lunga pandemia di Covid 19 appartiene sicuramente a uno di questi periodi segnati dall’incertezza come contesto di vita; la pandemia ha modificato nel profondo la quotidianità di ognuno di noi. La percezione del rischio, il confronto con un’inedita vulnerabilità cui non eravamo più abituati, l’assenza di pratiche consolidate e rassicuranti, la dimensione globale del fenomeno sono alcune delle caratteristiche che hanno avuto e continuano ad avere un’influenza molto forte sulle nostre rappresentazioni della realtà in cui viviamo, che hanno contribuito a creare nuove credenze e a produrre un nuovo senso comune (o più di uno). Si sono infatti formate – sulla base di fonti estremamente diverse e secondo modalità altrettanto diversificate, grazie anche allo strapotere dei social media – molteplici narrazioni e contro-narrazioni relative al virus, alla sua pericolosità, narrazioni che ne hanno addirittura messo in dubbio l’esistenza.

Mi sembrano queste le premesse per una prima non superficiale riflessione sui movimenti “no vax”, volta a attenuare il rischio di semplificare, di attribuire facili etichette che riconducono il dissenso a patologie individuali, dimenticando che certi comportamenti possono essere spie, tracce di cornici ideologiche, di configurazioni culturali che affondano in condizioni materiali dell’esistenza sociale di gruppi di persone. Tali operazioni sottovalutano il potere di “creare comunità” delle credenze e delle rappresentazioni. In altri termini, quando affiorano tendenze devianti rispetto a fenomeni collettivi come una pandemia, c’è un problema sociale. Tali fenomeni sono indici per misurare lo stato morale di una società. Una società che produce movimenti no vax è dunque una società malata. Di che malattia si tratta? Di una malattia che provoca profonde alterazioni nei processi di costruzione e di circolazione delle convinzioni, delle idee, delle credenze. Il contagio delle idee, infatti, è non meno rilevante (e pericoloso) di quello dei virus.

Molte delle credenze degli esseri umani, probabilmente la maggior parte, non sono ancorate alla percezione delle cose che sono oggetto delle credenze, ma dipendono dalla comunicazione riguardo a queste cose. Inoltre, gli esseri umani hanno una facoltà interpretativa, sono in grado di costruire interpretazioni (rappresentazioni di altre rappresentazioni, vale a dire di ciò che ci viene comunicato da altri). Questa abilità interpretativa ci aiuta a capire ciò di cui non abbiamo percezione, esperienza diretta: entriamo nell’ambito della comunicazione, fatta da significati, intenzioni, opinioni, teorie, discorsi, immagini. Quindi, una certa rappresentazione della realtà ci viene comunicata; si attiva un meccanismo inferenziale, in cui un ruolo importantissimo lo svolge la fiducia che abbiamo verso la fonte da cui arriva quella rappresentazione. Se ci fidiamo, completiamo in modo positivo il processo inferenziale, e collochiamo la nostra interpretazione nell’ambito delle “cose” in cui crediamo, anche se le capiamo solo parzialmente. Se non ci fidiamo della fonte, invece, il processo inferenziale si concluderà in modo negativo, e la “cosa” oggetto della nostra interpretazione verrà collocata in un contesto che la nega. Quindi, affianco al nostro “senso comune”, fatto di credenze intuitive – quelle basate su esperienze percettive – relative a ciò che è concreto e affidabile, esistono moltissime credenze riflessive, credenze capite a metà, non verificabili, legate a contesti di conferma estremamente eterogeni. L’adesione degli esseri umani a queste credenze riflessive è anch’essa molto variabile, dal polo dell’opinione superficiale al polo del credo fondamentalista. Come ricordavo prima, ciò che fa sì che una rappresentazione riflessiva diventi una credenza, e quindi generi comportamenti conseguenti, è l’autorità della sorgente della rappresentazione. Noi tutti, per tornare all’oggetto di questa riflessione, uomini comuni (non medici, virologi, scienziati) accettiamo le rappresentazioni del virus, pur avendone una comprensione molto limitata, sulla base dell’autorità da cui provengono. Quindi seguiamo comportamenti (e pensieri) conseguenti. Questa convinzione, come tutte le credenze riflessive, deve la propria diffusione quasi esclusivamente alla comunicazione. Altri fattori entrano in gioco per spiegare la diffusione e la presa di una rappresentazione che genera credenze riflessive (come sono entrambe la credenza nell’esistenza del virus per i comuni mortali, diciamo così, e la sua negazione): la facilità con cui quella rappresentazione può essere memorizzata (il “no covid” è più semplice da afferrare, nonché più “comodo” e più rassicurante); la capacità di far presa su un terreno culturale di base (la protesta sociale, amplificata dal sentirsi colpiti dai provvedimenti restrittivi); le motivazioni a comunicarla (chi può avere interesse a soffiare sul fuoco della protesta no covid? Chi può avere interesse a far passare le Istituzioni come nemiche del popolo?); la ricorrenza di situazioni in cui quella credenza da luogo ad azioni appropriate (uscire o non uscire di casa; indossare o non indossare la mascherina; tenere o non tenere le distanze sociali indicate sono azioni che scandiscono la nostra quotidianità); l’esistenza di centri impegnati a comunicarla. Tutto questo chiama in causa come principale responsabile la comunicazione nella sfera pubblica. Per farci un’idea dei tipi sociali che non credono nell’esistenza della pandemia, e individuare qualche motivo alla base delle loro convinzioni non occorre conferire loro il rango di “negazionisti” (come impropriamente è stato fatto). Occorre riflettere sulle caratteristiche di una sfera pubblica amplificata oltre ogni limite dai social media (del resto già martoriata dagli abusi indiscriminati rilevabili nei media tradizionali) e sui tratti epidemiologici alterati (la malattia) delle rappresentazioni mentali che circolano in gran numero dentro quella sfera pubblica abnorme e senza controllo.

Sono grandi quindi le responsabilità dei media e dei new media che consentono la proliferazione di contro-narrazioni. Responsabilità che provocano vere e proprie “falle” della democrazia, nascoste dalla convinzione di agire nel nome della libertà di espressione e del diritto di cronaca.

Sia le responsabilità dei media classici (tutti quei giornalisti che danno voce, risonanza e quindi visibilità a queste persone, anche appunto scomodando il termine “negazionismo” per definire un fenomeno che andrebbe derubricato a “dissenso patologico”), sia quelle dei new media, che hanno il difetto evidente di avvalorare e amplificare qualsiasi scemenza che, solo per il fatto di essere postata da un anonimo individuo, può essere letta, ripresa, taggata, condivisa, fino a divenire virale. Questi effetti di amplificazione andrebbero sanzionati, ridotti, per esempio come hanno fatto molti gestori di piattaforme social e di media sui post e le dichiarazioni di Trump negli Stati Uniti durante e subito dopo l’ultima campagna elettorale, che non vengono censurati, garantendo il rispetto della libertà di espressione, ma vengono segnalati con una didascalia che avvisa del loro contenuto non suffragato da evidenze, e quindi mettono in guardia rispetto alla loro veridicità. Senza controlli, chiunque è in grado di postare qualsiasi cosa. Non è esattamente così che va applicato il sacrosanto principio della libertà di parola. Qui si incontra un’altra aberrazione (un’altra malattia sociale): se vogliamo mantenere la libertà di espressione nelle nostre società democratiche, considerandoci capaci di assorbire i danni che movimenti dissennati – come quelli all’insegna del “covid non esiste” e della “dittatura sanitaria” – possono provocare, di fatto provocano, dentro il tessuto sociale e culturale – per esempio le aggressioni contro gli operatori sanitari, la sfiducia verso le istituzioni e i provvedimenti presi per contenere il contagio – allora sarebbe bene quanto meno ridurre la capacità di farsi sentire – di “contagiare” appunto – di queste persone, che oltre a manifestare opinioni quanto meno discutibili commettono (o istigano a commettere) reati.

C’è un altro punto da trattare, spesso anche i saperi esperti entrano in contraddizione e in conflitto tra loro. Quali sono i parametri secondo i quali una fonte è più autorevole di un’altra?

Rispondere richiederebbe un’etnografia, un ingresso negli universi culturali no-vax e in particolare in quelle premesse sociali e culturali che generano un atteggiamento di sospetto, di sfiducia, di complottismo, di semplificazione. A questo proposito, mi sembra pertinente un celebre saggio di Clifford Geertz, «Il senso comune come sistema culturale», in cui l’antropologo statunitense ci ricorda l’importanza del nesso fra determinati malesseri sociali e dispositivi retorici (slogan, simboli, immagini) in grado di incanalare e dare una risoluzione simbolica, appunto, al disagio. Simboli, metafore, atteggiamenti e comportamenti “no vax”, anche esasperati, esprimono in ultima istanza frustrazioni, esigenze di riconoscimento, malesseri diffusi. Il dato a partire dal quale si può in parte “leggere” il fiorire di atteggiamenti “negazionisti”, comunque, resta l’incertezza: l’incertezza, l’ambiguità, si fanno contesto, e “catturano” ampie porzioni di una società marcate da precarietà economica, ma non solo, anche esistenziale: l’assenza di progetti credibili per il futuro contribuisce a generare un senso di incertezza che può trovare parziale risoluzione nelle certezze e nel senso di identità (malata) che derivano da prese di posizione nette, dissenzienti e semplificanti.

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