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Dal Pnrr la spinta a una nuova organizzazione dell’università

IN SCUOLA E UNIVERSITÀ

Rivedere le classi di laurea per renderle più flessibili e ampliare l’offerta formativa in base a criteri multidisciplinari può finalmente contribuire a superare l’atavica parcellizzazione dei saperi. Anche perché ci sono 430 milioni di finanziamenti.

La revisione delle classi di laurea 

L’articolo di Andrea Gavosto e Matteo Turri mette l’accento sui diversi interventi di riforma del Piano nazionale di ripresa e resilienza sull’università. Tra questi è ricompreso, con 430 milioni di risorse a disposizione, un incremento della flessibilità delle classi di laurea, rafforzando le competenze multidisciplinari, l’attenzione alle tecnologie digitali e ai temi ambientali e la costruzione di soft skills, insieme all’ampliamento delle lauree professionalizzanti e alla creazione di hub per l’istruzione digitale degli studenti e per la formazione didattica dei docenti.  

Sono misure, come sottolineano Gavosto e Turri, in parte dispersive, ma ricche di grandi implicazioni, potenzialità e rischi per il futuro dell’università.

In particolare, rivedere le classi di laurea rendendole più flessibili e ampliando l’offerta formativa in base a criteri multidisciplinari può finalmente contribuire a superare la nostra atavica parcellizzazione dei saperi e rispondere a filiere occupazionali che richiedono laureati con competenze specialistiche, ma sempre più in grado di comprendere e dialogare con altri campi della conoscenza. 

In sostanza, più si apprende secondo canoni interdisciplinari più ci si attrezza per accedere al mercato del lavoro. E anche sul piano della ricerca. ormai da molto tempo e in tutte le sedi, l’interdisciplinarità è diventata criterio discriminante per l’accesso ai finanziamenti.

Il diavolo nei particolari 

Ma il diavolo si nasconde nei particolari. Spesso l’interdisciplinarietà è infatti tanto proclamata quanto poco concretamente applicata. Una coerente offerta didattica non può limitarsi all’aggiunta di qualche materia, magari per rendere più appetibile agli studenti un corso, ma presuppone la definizione, in base alle finalità che quel corso intende realizzare, del “come” e del “quando” le discipline dialogano tra di loro e le modalità attraverso le quali vengono insegnate. 

Qui il Pnrr fa un errore perché parla, non si sa con quanta consapevolezza, di multidisciplinarità, che significa, appunto, una sommatoria di competenze, mentre interdisciplinarità significa integrare e quindi superare la compartimentalizzazione dei saperi.

È una differenza lessicale non da poco, soprattutto se si tiene conto che oggi il campo più evoluto è rappresentato dalla transdisciplinarità, cioè il superamento totale dei diversi confini, con la configurazione di nuovi paradigmi scientifici.

È quindi necessario declinare questa importante differenza individuando gli obiettivi culturali di ogni classe di laurea e costruendo percorsi qualificati da conoscenze diversificate che arricchiscono e professionalizzano quelle di base, secondo esperienze già avviate e che il Pnrr vuole chiaramente aumentare. 

L’interdisciplinarità presa sul serio 

La differenza tra i due concetti ha rilevanti conseguenze pratiche anche sul terreno della ricerca, che secondo il recente Programma nazionale per la ricerca 2021-2027 sarà nel futuro condizionata – insieme alle relative risorse – alla coerenza con criteri di forte interdisciplinarità. 

Ma, in questo caso, bisogna intraprendere altri importanti passi per una profonda modifica dell’organizzazione universitaria e soprattutto della sistemazione dei saperi.

Negli ultimi anni non sono riuscito a trovare un solo difensore dell’attuale classificazione dei settori scientifico-disciplinari, da tutti ritenuta il vero ostacolo che impedisce il superamento delle barriere tra scienze esatte e umanistiche e delle suddivisioni presenti al loro interno. Eppure, niente finora è stato fatto per modificarla. 

Una lunga inerzia, ancor più grave alla luce di alcune proposte (mi riferisco al parere n. 22 del 7 maggio 2018 del Consiglio universitario nazionale relativo alla “Modello di aggiornamento e razionalizzazione della classificazione dei saperi accademici e del sistema delle classi di studio, anche in funzione della flessibilità e della internazionalizzazione dell’offerta formativa”) che indicavano una strada basata sulla differenziazione tra raggruppamenti disciplinari e domini di ricerca con “una chiara distinzione dei loro usi e funzioni e senza relazioni gerarchiche fra le due articolazioni”. 

Lo stesso Cun metteva chiaramente in evidenza come la revisione, per realizzare le sue finalità, dovesse ovviamente coinvolgere anche i parametri e i criteri di valutazione della produzione scientifica; anche questo tassello è essenziale per la diffusione di ricerche (e carriere) ispirate al dialogo tra saperi e competenze. Sono proposte sicuramente da discutere e da migliorare, ma erano comunque un punto di partenza, probabilmente cadute nell’oblio per le resistenze al cambiamento sempre presenti nella comunità accademica. Solo che adesso ci sono in ballo i 430 milioni del Pnrr e il rischio di perderli.

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