Quando ho cominciato a fare lezione su TEAMS, nella prima settimana di sperimentazione, dopo sette giorni di blocco dell’attività didattica e mentre si stava delineando la nuova condizione di isolamento forzato, mi è sembrato subito di capire che forse, accanto ai contenuti che potevano ascoltare in questa nuova modalità di lezione, per gli studenti fosse importante sentirsi e rivedersi, fare rete, attestare una presenza, esserci.
Così è nata l’idea di chiedere loro fotografie che raccontassero ciò che stava accadendo. Hanno cominciato a mandarmele e ancora lo fanno…
Per carità, niente di particolare a confronto delle tante immagini professionali che stanno documentando in maniera, anche spettacolare, queste giornate. Ma sono i nostri studenti.
E allora guardo le loro fotografie, non tanto per il soggetto, per lo stile o cose del genere, ma come traccia della loro stessa volontà di presenza, la volontà e la voglia di mantenere un contatto col mondo, di continuare a guardare fuori…
Del resto le fotografie possono essere straordinarie nell’aiutarci ad affrontare momenti difficili, come ha raccontato benissimo, nella sua autobiografia, Helmut Newton (un Newton forse sorprendente e inaspettato per chi conosce il suo lavoro nella moda) ricordando quando dovette affrontare la malattia della moglie:
Alla fine la operarono nell’aprile del 1982, e naturalmente scattai delle foto. La macchina fotografica rappresenta una sorta di barriera tra me e la realtà e quando devo affrontare qualcosa di particolarmente spiacevole, come il mio infarto e la lenta riabilitazione a New York nel 1971, scattare foto mi aiuta molto. Quando June ha dovuto subire questa complicata operazione nel 1982, mi accorsi di riuscire ad affrontare lei e il modo in cui il suo corpo si stava trasformando con molta più prontezza e coraggio ponendo una macchina fotografica fra i miei occhi e quelli di June.

















