Articolo del blog

La globalizzazione incompiuta

La pandemia, il terrorismo, le migrazioni, le crisi finanziarie sono solo alcuni, quelli maggiormente evidenti, tra i fenomeni globali che segnano in modo profondo la nostra vita da qualche anno. Questi fenomeni hanno in comune una caratteristica: erodono i confini nazionali, mettono in crisi le sovranità, proprio perché difficilmente sono controllabili da un singolo governo entro i confini di una singola nazione, e in questo senso diventano cartine al tornasole, indici dei punti critici che rendono fragile la grande cornice globale in cui tutti noi, presi dalla grande narrazione dominante, ci illudiamo di vivere, muoverci, lavorare, progettare. Si tratta di un’illusione perché ci manca la consapevolezza che ciò che – apparentemente – accade agli altri e altrove riguarda sempre e comunque anche noi. Se riflettiamo sul tratto più importante della globalizzazione, la mobilità, diventa chiaro perché i contesti locali soffrono a causa dei processi globali. I virus si muovono con le persone: se il tasso di mobilità di una certa area è alto, si alza anche la curva epidemiologica. Se le persone stanno ferme, confinate, il virus si ferma. I terroristi nuotano sommersi nelle reti transnazionali; si inabissano in un luogo, spuntano in un altro, seguendo le connessioni, eludendo i controlli, e lo possono fare perché se vogliamo alimentare la mobilità dobbiamo indebolire i confini. Lo stesso vale per le migrazioni: la cornice globale nutre l’immaginazione, le persone fuggono da posti dove si muore, di fame o di guerra, perché credono nella possibilità di una vita migliore altrove. Infine, le crisi finanziarie: l’espansione dei mercati, la delocalizzazione industriale, generano ricchezza (per alcuni) ma rendono anche più vulnerabile un contesto locale, che può essere travolto dalle conseguenze di un crollo verificatosi da un’altra parte, contro il quale non ci sono difese che tengano. I governi nazionali, mal disposti a cedere sovranità a istituzioni sovranazionali, si affannano a cercare rimedi locali contro mali globali, che per il loro carattere frammentario e limitato non possono che risultare poco efficaci, salvo nel solleticare le mai sopite istanze nazionaliste del popolo.

Questo quadro complessivamente contraddittorio genera incertezza, ambiguità, timori, e alimenta rancori e egoismi, anche irrazionali, fomentati, strumentalizzati finché si vuole, ma che comunque hanno la loro radice nelle effettive incompiutezze della cornice generale, una globalizzazione incompiuta, che è il tratto costante della nostra vita contemporanea.

Come uscirne? Ritengo che le strade per risolvere l’incompiutezza del mondo contemporaneo siano due: forzare i tempi di realizzazione di una vera impalcatura politico-istituzionale transnazionale, spostando i luoghi delle decisioni politiche sempre più verso livelli comunitari ampi, europei, con conseguente perdita di sovranità dei livelli nazionali, regionali, locali; ma mi pare che questa strada sia molto molto lontana, se pensiamo soltanto al balletto delle responsabilità e delle discussioni che caratterizza per esempio la scena italiana, tra governo centrale, regioni e comuni. O se pensiamo alle reticenze che costellano l’assunzione di una politica migratoria comune a tutti i paesi dell’Unione, ciascuno attento alle proprie pulsioni interne e a non urtare la suscettibilità dei propri popoli rispetto al problema migranti. Oppure ancora, se pensiamo alle difficoltà e ai contrasti che costellano l’approvvigionamento di vaccini da parte dell’Unione Europea. E quindi, l’altra strada: ammettere che la condizione cosmopolita in senso kantiano – la terra appartiene a tutti allo stesso modo, ognuno è libero di vivere dove preferisce, ecc. – è solo una bella costruzione filosofica, ma non può trovare in alcun modo applicazioni politiche, perché gli esseri umani non possono liberarsi dai particolarismi, dalle appartenenze, dal dominio delle verità relative. Questo vorrebbe dire che per evitare il rischio concreto di essere travolti e annientati da una globalizzazione senza controllo – i cui segnali sono già più che presenti – dobbiamo fare marcia indietro e tornare verso un mondo fatto di una molteplicità di poli culturali, linguistici e politici diversi, ben definiti e confinati, che si oppongono reciprocamente tenendosi a distanza e sempre a distanza a volte comunicano e si scambiano elementi ma senza eccedere e mantenendo ciascuno le proprie specificità.

Scriveva Claude Lévi-Strauss alcuni anni fa: “… le grandi epoche creatrici furono quelle in cui la comunicazione era diventata sufficiente perché corrispondenti lontani fra loro si stimolassero, senza tuttavia essere così frequente e rapida da far sì che gli ostacoli, indispensabili fra gli individui come fra i gruppi, si riducessero fino al punto che gli scambi troppo facili livellassero e confondessero la loro diversità” (Lo sguardo da lontano, Einaudi 1984: 29-30).

Può darsi che il grande antropologo avesse colto nel segno. Vivere in un mondo indefinito, senza confini, in cui c’è sempre meno integrità e uniformità culturale perché le diversità stanno a distanza ravvicinata, e si mescolano, e finiscono con l’annullarsi, potrebbe non essere quello che fa per noi (esseri umani).

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