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E se domani… tutto tornasse come prima? Comunicazione, informazione e valore della conoscenza prima e dopo il Coronavirus

E se domani, io non potessi rivedere te… Mai più profetiche potevano essere le parole dell’evergreen cantato da Mina, tornata in questi giorni sui nostri schermi in occasione dei suoi 80 anni. Stefano Massini, nel dossier dedicato da «Robinson» sabato 21 marzo, interpreta il “metaforico” titolo alla luce della nostra storia politica, correva l’anno 1964: “Non v’era abbastanza per dubitare del poi?”, commenta. Quella canzone mutatis mutandis riafferma oggi la sua attualità.

Con l’epidemia in corso possiamo infatti liberarci a immaginare l’utopia del “giorno dopo” mentre stiamo vivendo la distopia ipermoderna dell’isolamento, della solitudine, dell’autoreclusione che ci interfaccia col mondo solo attraverso uno schermo – la finestra da tavolo da cui sporci sulle news, anche quelle fake – ma che ci fa sentire stranamente vivi e più prossimi nella disgrazia. O forse sempre meno umani?

Il bisogno di relazione, di sentirsi parte unitaria di un tutto è quanto ci spinge fuori, ad aprire la finestra, quella vera di casa, e a cantare – come molti in vari quartieri e città del Paese – per cercare la vita intorno, per invocare l’umanità circostante, per trovare una eco alla nostra nostalgia, per resistere all’isolamento e alla chiusura vagheggiati fino a qualche mese fa dalle destre. È a suo modo, questo canto strozzato, straziato e liberatorio una forma di preghiera, di resistenza, di comunicazione profonda e sincera (esibizionismi a parte).

È però sul piano della comunicazione e dell’informazione di massa che si sta giocando la terribile partita che stringe le nostre esistenze. Ed è proprio su questo punto che dovremmo immaginarci migliori. Faccio riferimento a due dossier diffusi quasi contemporaneamente tre mesi prima dell’allarme coronavirus: A world at risk, prodotto dall’OMS e dalla Banca Mondiale, e lo studio americano Global Health Security Index, pubblicato dalla John Hopkins School (si veda il rapporto compilato per “L’Espresso” da Emiliano Fittipardi nel n. 11 dell’8 marzo 2020, pp. 18-27).

Se il primo ammoniva l’UE di essere impreparata a fronte di un imprevisto come un’emergenza sanitaria, il secondo riconosceva come politicamente strategico, in caso di crisi, un punto cruciale: “comunicazione del rischio alla popolazione”. E l’Europa, messa subito alla prova dei fatti, ha confermato i profetici esiti dell’inchiesta, mostrandosi fallace proprio sul versante dell’efficacia comunicativa.

Nelle prime settimane di emersione del contagio, ma anche in questi giorni di “bollettino di guerra delle 18”, gli organi di informazione italiani (oltralpe non è stato molto diverso), dimenandosi tra trasparenza, political correctness e posizioni discordanti sul virus infettante, non hanno realmente contribuito a informare – parola altamente scivolosa e ambigua, per altro – e a fornire con la giusta efficacia indicazioni indispensabili per arginare il contagio.

L’incisività dell’informazione misura la temperatura del consenso e dell’obbedienza civile e contribuisce, tanto più oggi, alla regolamentazione dei rapporti sociali. Comunicare il rischio significa saperlo gestire; usare l’arma dei media denota capacità di controllo interno e garanzia di sicurezza nazionale.

Confusione, incertezza, emergenza hanno di conseguenza portato a usare una comunicazione imperativa e ossessiva nelle raccomandazioni e nei divieti, volta ben poco a tranquillizzare bensì piuttosto a incrementare fattori di stress emotivo. Il quadro apocalittico che ogni giorno viene composto contribuisce ad alterare la percezione di una realtà che non è possibile comprendere se non attraverso le narrazioni che di essa ci vengono fornite (basti pensare alle gravi reazioni scatenate la sera del 7 marzo dalla fuga di notizie attraverso i media sull’imminente DPCM).

Se i media generalisti continuano a essere seguiti dalla maggior parte delle persone per informarsi, è però nel patchwork mediale, attingendo cioè a più canali e strumenti messi a disposizione dal digitale, che ciascuno, a suo modo, ricostruisce la propria versione della realtà: rassicurante (con l’apotropaico “Andrà tutto bene”, che colora d’arcobaleno finestre e balconi, e che è diventato un hashtag), catastrofica (quarantena lunga un anno e mezzo), complottista (con e senza il ripescaggio del servizio di Rai-Leonardo nel 2015 sull’ipotesi artificiale della Sars Cov 2), etc.

È allora in questo stato di eccezione che possiamo e dobbiamo aprire un dibattito serio sulle forme e i modi della comunicazione e del suo inestricabile intreccio con l’informazione, e su come soprattutto nell’ultimo decennio la politica nostrana ne abbia fatto uso, de-medializzando vecchi e nuovi media per virtualizzare il confronto sui social e premere sui fattori emotivi e viscerali del cittadino-elettore. L’attuale condizione potrebbe d’altra parte portare a riequilibrare le perversioni della nostra società della disinformazione, dove tutti producono notizie depotenziando il valore delle fonti e dell’autorevolezza di un intervento.

Nei talk show dell’ultimo mese sono tornati (finalmente!) a parlare esperti seri e accreditati contribuendo a riconfigurare i toni dei dibattiti, odierni e, si spera, futuri. Finalmente ad accademici e scienziati viene ridata voce, riconsegnato uno spazio degno di una comunicazione civile. Forse questi mesi ci porteranno a riconoscere il valore della conoscenza, la necessità della ricerca, la crucialità di alcune strutture e servizi e il rispetto del personale che vi lavora. Ci riferiamo a quei settori messi in sofferenza dalle spending review degli ultimi anni e invece prioritari in un paese che voglia continuare a figurare nel primo mondo del terzo millennio. Come sbagliarsi, stiamo ovviamente parlando di scuola, ricerca, sanità!

E se domani, e sottolineo se…

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